Meng chiede i domiciliari, sale la tensione
Il «caso Huawei» continua ad alimentare le tensioni politiche tra Cina da una parte, Stati Uniti e Canada dall’altra. Ieri Meng Wanzhou, direttrice finanziaria e figlia del fondatore del grande gruppo di telecomunicazioni, è comparsa per la seconda udienza nella Corte di Vancouver. Wanzhou è agli arresti dal 1 dicembre, su richiesta del Dipartimento di giustizia americano che l’accusa di aver ingannato alcune banche Usa, inducendole a finanziare l’attività in Iran di una società collegata a Huawei. La manager, secondo la procura di Brooklyn che ha in mano l’inchiesta, avrebbe «cospirato» per aggirare il blocco imposto dalle sanzioni Usa contro Teheran. Un’imputazione che può costarle fino a 30 anni di carcere. Il governo di Washington, quindi, ne chiede l’estradizione. Ma per il momento i giudici di Vancouver devono decidere se rilasciarla, concedendo gli arresti domiciliari o la libertà vigilata. L’avvocato difensore, David Martin, ha dichiarato che la «sua cliente è pronta a farsi carico di tutte le spese connesse ai controlli, in caso di scarcerazione». Meng Wanzhou, 46 anni, sposata, quattro figli, ha un permesso di residenza permanente in Canada: a Vancouver possiede due case dove potrebbe restare sotto sorveglianza. La Cina, intanto, aumenta le pressioni. Domenica 9 dicembre, a Pechino, il vice ministro degli Esteri, Le Yucheng ha convocato l’ambasciatore canadese John Mccallum e quello americano Terry Branstad, annunciando «contromisure» se Wanzhou non verrà rilasciata e prosciolta. Il portavoce del ministero degli Esteri, Lu Kang, ha allargato la polemica, sostenendo che «diversi Paesi» stanno enfatizzando il rischio di questa «cosiddetta minaccia, ma «non c’è la minima prova che possa confermare le accuse. Ed è assurdo creare ostacoli alle normali attività delle imprese, basandosi su semplici congetture».