LA BATTAGLIA DIMENTICATA
NEL 1636 LA SPAGNA DIFESE LA LOMBARDIA RESPINGENDO I FRANCESI A TORNAVENTO
Un saggio dello storico canadese Gregory Hanlon (edito da Leg) su un fatto d’arme della guerra dei Trent’anni. Anche se non ebbe un’importanza decisiva stupisce la totale mancanza di attenzione degli studiosi italiani sulla vicenda
Quella di Tornavento fu una battaglia minore della guerra dei Trent’anni che sconvolse l’intera Europa nella prima metà del Seicento (1618-1648), per giunta su un fronte tutto sommato secondario. Di solito, spiega Gregory Hanlon in Italia 1636. Il sepolcro degli eserciti — pubblicato dalle edizioni Leg — «il teatro italiano rimane escluso dai racconti generali di quel conflitto», pur se il «teatro italiano» fu ben più che «un dettaglio minore nel quadro più ampio della guerra». Un conflitto che, scrive Hanlon, infuriò in Germania per un periodo assai lungo e fu «una brutale guerra civile» combattuta dai cattolici alleati con la casa imperiale d’austria (gli Asburgo, sovrani del Sacro Romano Impero) contro una coalizione variabile di principi ribelli tedeschi protestanti. Lo scontro scoppiò in Boemia nel 1618, quando i sudditi protestanti, alla morte dell’imperatore Mattia, rinnegarono la promessa di eleggere al trono suo nipote Ferdinando, temendo di essere danneggiati dal suo «cattolicesimo militante» e dalla sua ben nota intenzione di «ridimensionare il protestantesimo nei suoi domini». Al posto di Ferdinando elessero come re di Boemia l’elettore palatino Federico, calvinista. E nel 1619 ebbero la meglio, riuscendo addirittura a cacciare l’erede asburgico da Vienna. Ma quello fu solo l’inizio di una lunghissima contesa combattuta in armi. Dopo lo scoppio della guerra nel 1618, il re di Francia Luigi XIII e il suo primo ministro cardinale Richelieu continuarono per anni a battersi per porre fine all’egemonia degli Asburgo in Europa. La Francia era il singolo Stato più ricco e più popoloso del continente, costretto, fino a quel momento, a rinunciare a un ruolo di reale predominio proprio a causa delle sanguinose dispute religiose al proprio stesso interno. Le cose cambiarono solo con la guerra dei Trent’anni. O quantomeno potevano cambiare…
E la penisola italica? All’epoca manovre, campagne di logoramento e assedi prostrarono per decenni gran parte dell’italia settentrionale e centro-settentrionale. Le battaglie invece furono poco frequenti, eventi non paragonabili, per dimensioni, a quelle della Germania o dei Paesi Bassi. E, a differenza di quelle nordeuropee, non furono mai risolutive. Per la maggior parte delle battaglie su suolo italiano si può parlare, secondo Hanlon, di «azioni», vale a dire «scontri che coinvolgevano meno di diecimila uomini per schieramento» (in genere un numero assai minore). Nessuno di questi scontri, peraltro, annientava la capacità dello schieramento sconfitto di continuare la guerra, né consentiva al vincitore l’occupazione di intere province. Quello di Tornavento del 1636 fu, dunque, «lo scontro più vasto nel periodo compreso fra la battaglia di Pavia nel 1525 e quella della Marsaglia, in Piemonte, nel 1693» anche se nessuno dei due schieramenti contava più di quindicimila soldati. Il valore storico decisivo dello scontro di Tornavento «emerse soltanto a posteriori e in negativo», quando si comprese come avesse impedito la conquista francese della Lombardia spagnola.
La battaglia in sé fu poca cosa, non fosse per i morti che lasciò sul terreno: duemila. Si affrontavano, guidate dal marchese di Leganés, le truppe del re di Spagna (nonché duca di Milano, signore di gran parte delle terre lombarde) e quelle francesi alleate con i piemontesi, capitanate dal maresciallo di Crequy. Si risolse con una sostanziale tenuta della Spagna e, di conseguenza, con uno smacco per la Francia. Le campagne che all’epoca opposero in Italia le forze armate franco-savoiarde da un lato a quelle guidate dagli spagnoli — con gli ausiliari tedeschi — dall’altro, durarono quasi un quarto di secolo. Ma nonostante ciò, fa notare Hanlon , «a tutt’oggi questo teatro non interessa gli storici francesi, né quelli tedeschi, né tantomeno quelli spagnoli». I francesi consideravano l’italia il «sepolcro degli eserciti» (di qui il sottotitolo del libro), vale a dire «il luogo in cui ogni desiderio di conquista e di dominio andava in rovina», non meritevole di una particolare attenzione da parte di coloro che si sono occupati della guerra dei Trent’anni. Più o meno lo stesso giudizio è stato dato da tedeschi, spagnoli e, strada facendo, dagli studiosi di tutta Europa, eccezion fatta per qualche rarissimo caso. Persino gli italiani sono stati oltremodo «parchi di attenzione» alle vicende militari di questo delicato frangente storico, nonostante la contesa, che a più riprese coinvolse ogni parte della penisola, costituisca «il singolo maggior evento della storia del Paese fra il Concilio di Trento e la Rivoluzione francese». Un secolo e mezzo. Perché questa distrazione? Gli accademici italiani con alcune eccezioni, risponde Hanlon, ignorano «caparbiamente» battaglie come quella di Tornavento per il fatto che «non si conformano alla cornice campanilistica all’interno della quale essi stessi operano». Più in generale, secondo lo storico, «gli italiani ignorano la storia militare a causa della sgradevole associazione di idee con il passato fascista». Nel nostro Paese «è considerato accettabile occuparsi delle sconfitte» — come Novara, Custoza, Adua, Caporetto ed El Alamein — rispetto alle quali nessun collega, «pur in un ambiente competitivo, spesso al limite della lotta al coltello», potrà accusare l’incauto storico di aver «coltivato pericolosi istinti marziali».
Equi Hanlon chiarisce un punto a suo avviso fondamentale. «Che il conflitto faccia parte del modo in cui gli esseri umani si sono evoluti sin dalla preistoria», scrive, «è qualcosa che dobbiamo prendere come un dato di fatto». Uno studioso empirico che sia intenzionato a spiegare un problema della storia dovrebbe, invece, «lasciare le lontane origini di questi tratti sullo sfondo, concentrandosi sul luogo e sul tempo in esame».
Nel XVII secolo «la guerra non era caratterizzata da una barbarie senza confini». Gli ufficiali e i soldati «osservavano regole d’ingaggio la cui logica umana e necessità possiamo ben comprendere attraverso uno studio approfondito». Nelle lotte tra cattolici e protestanti nei Paesi Bassi che si protrassero per decenni, scrive Hanlon, gli eserciti europei, ad esempio, elaborarono regole pensate per attenuare, almeno in parte, gli orrori della guerra. Molte sembravano semplici cortesie, altre «precorrevano uno spirito umanitario». Nell’arco di dieci giorni dalla fine delle ostilità, entrambi gli schieramenti dovevano aver rilasciato i pri-