LA RETE E LA LEADERSHIP CHE DIVENTA FOLLOWSHIP
Rappresentanza in crisi La classe dirigente tende sempre più a seguire passivamente le opinioni della maggioranza (forse soltanto quelle di chi urla di più)
P oche cose sono cambiate negli ultimi anni come il giudizio sul rapporto tra Internet e la democrazia. Nel 2011, con le Primavere arabe, sembrava che una grande mobilitazione democratica potesse giungere al successo proprio grazie al decisivo sostegno dei social media. Ben presto si vide però che le cose erano più complicate e che gli stessi strumenti di collegamento impiegati da chi si opponeva ai governi potevano essere utilizzati da questi ultimi per controllare e reprimere ogni dissenso interno e ogni forma di protesta. Ma anche nei regimi democratici, in realtà, alcuni grandi scandali — dal Russiagate negli Stati Uniti all’uso illegale dei dati degli utenti di Facebook nel caso di Cambridge Analytica — spingono ormai a guardare con preoccupazione ai rischi che la democrazia può correre a causa della Rete. Sotto accusa è in particolare Facebook che, se ha potuto essere utilizzato in modo improprio o apertamente criminale, ciò è avvenuto perché la piattaforma di Zuckerberg è stata concepita male, è «fatta su misura per l’abuso da parte di malintenzionati» (così Jacob Weisberg in un articolo sulla New York Review of Books dall’eloquente titolo «The Autocracy App»). Si è anche sottolineato ripetutamente come la discussione che avviene sui social incoraggi ciascuno a entrare in relazione soprattutto con chi la pensa allo stesso modo in una specie di «camera dell’eco». E come abbia il peso maggiore chi si esprime in modo unilaterale e aggressivo, essendo spesso totalmente incompetente di ciò di cui sta parlando (i social, come è noto, sono un fertilissimo terreno di sviluppo per ogni più bislacca teoria del complotto).
Le critiche appena riferite mostrano quanto sia cambiato il paradigma di giudizio rispetto soltanto a pochi anni fa, quando a prevalere era la fiducia nella Rete come strumento di sviluppo della democrazia. Ma a queste critiche manca forse qualcosa: una prospettiva storica che le colleghi al passato, all’affermarsi in Occidente dei regimi democratici. La democrazia rappresentativa è nata con il preciso scopo di accettare sì la sovranità popolare come fondamento della legittimità delle istituzioni politiche, ma anche di impedire che il popolo in carne e ossa — l’insieme della popolazione — esercitasse direttamente il potere. Tra ‘700 e ‘800 sono in molti a temere la «tirannide plebea»: non solo un grande conservatore come Chateaubriand (sua l’espressione), ma anche un liberale come Tocqueville o un democratico come Mazzini. Fatte le debite differenze tra gli uni e gli altri, si riteneva che le opinioni del popolo andassero depurate, raffinate: a questo doveva servire appunto il sistema rappresentativo, ad affidare il potere di fare le leggi e di governare a un’élite istruita e capace, a una specie di nuova «aristocrazia», in grado di affrontare i problemi di un Paese più delle persone comuni, poco preparate, più legate a bisogni vitali immediati e meno in grado — si sosteneva — di far prevalere l’interesse generale. Gli stessi partiti sono stati anche — forse oggi potremmo dire soprattutto — questo: un modo per incanalare, depurare di certe pulsioni istintive gli orientamenti dell’opinione pubblica. Anche quando al governo sono saliti partiti di sinistra, le democrazie rappresentative si sono di fatto configurate come una forma di governo misto, che univa istituti democratici al ruolo rilevantissimo delle élite politiche.
L’affermarsi della Rete — e con essa della possibilità per tutti di intervenire su tutto, non in fantomatiche piattaforme Rousseau ma nella frequentazione quotidiana dei social media — sembra aver reso definitivamente improponibili le vecchie forme di «democrazia aristocratica», chiamiamole così, nelle quali uno spazio essenziale era riservato alla competenza (e a questo esito hanno contribuito, ovviamente, i non sempre eccelsi risultati raggiunti dai competenti). Ormai i leader politici preferiscono seguire il continuo flusso di opinioni della Rete. Si è visto nelle vittorie elettorali di Trump in America, ma anche nel modo in cui Matteo Salvini e la Lega utilizzano i social: analizzano «in tempo reale quali sono post e tweet con più successo» (come ha riferito Claudio Bozza sul Corriere del 4 dicembre) e immediatamente si regolano di conseguenza, uniformandosi agli stati d’animo che sono o sembrano più diffusi. Con la Rete si sta affermando dunque una democrazia che aspira a riflettere le opinioni popolari senza filtri e senza mediazioni. Una democrazia in cui la leadership — come capacità di interpretare i sentimenti collettivi ma anche di offrire una guida che, se e quando necessario, sappia prescinderne — sembra destinata a essere sostituita dalla followship, dalla tendenza a seguire passivamente le opinioni della maggioranza, che forse sono solo quelle di chi urla di più e ha più tempo a disposizione.