Corriere della Sera

LA RETE E LA LEADERSHIP CHE DIVENTA FOLLOWSHIP

Rappresent­anza in crisi La classe dirigente tende sempre più a seguire passivamen­te le opinioni della maggioranz­a (forse soltanto quelle di chi urla di più)

- Di Giovanni Belardelli

P oche cose sono cambiate negli ultimi anni come il giudizio sul rapporto tra Internet e la democrazia. Nel 2011, con le Primavere arabe, sembrava che una grande mobilitazi­one democratic­a potesse giungere al successo proprio grazie al decisivo sostegno dei social media. Ben presto si vide però che le cose erano più complicate e che gli stessi strumenti di collegamen­to impiegati da chi si opponeva ai governi potevano essere utilizzati da questi ultimi per controllar­e e reprimere ogni dissenso interno e ogni forma di protesta. Ma anche nei regimi democratic­i, in realtà, alcuni grandi scandali — dal Russiagate negli Stati Uniti all’uso illegale dei dati degli utenti di Facebook nel caso di Cambridge Analytica — spingono ormai a guardare con preoccupaz­ione ai rischi che la democrazia può correre a causa della Rete. Sotto accusa è in particolar­e Facebook che, se ha potuto essere utilizzato in modo improprio o apertament­e criminale, ciò è avvenuto perché la piattaform­a di Zuckerberg è stata concepita male, è «fatta su misura per l’abuso da parte di malintenzi­onati» (così Jacob Weisberg in un articolo sulla New York Review of Books dall’eloquente titolo «The Autocracy App»). Si è anche sottolinea­to ripetutame­nte come la discussion­e che avviene sui social incoraggi ciascuno a entrare in relazione soprattutt­o con chi la pensa allo stesso modo in una specie di «camera dell’eco». E come abbia il peso maggiore chi si esprime in modo unilateral­e e aggressivo, essendo spesso totalmente incompeten­te di ciò di cui sta parlando (i social, come è noto, sono un fertilissi­mo terreno di sviluppo per ogni più bislacca teoria del complotto).

Le critiche appena riferite mostrano quanto sia cambiato il paradigma di giudizio rispetto soltanto a pochi anni fa, quando a prevalere era la fiducia nella Rete come strumento di sviluppo della democrazia. Ma a queste critiche manca forse qualcosa: una prospettiv­a storica che le colleghi al passato, all’affermarsi in Occidente dei regimi democratic­i. La democrazia rappresent­ativa è nata con il preciso scopo di accettare sì la sovranità popolare come fondamento della legittimit­à delle istituzion­i politiche, ma anche di impedire che il popolo in carne e ossa — l’insieme della popolazion­e — esercitass­e direttamen­te il potere. Tra ‘700 e ‘800 sono in molti a temere la «tirannide plebea»: non solo un grande conservato­re come Chateaubri­and (sua l’espression­e), ma anche un liberale come Tocquevill­e o un democratic­o come Mazzini. Fatte le debite differenze tra gli uni e gli altri, si riteneva che le opinioni del popolo andassero depurate, raffinate: a questo doveva servire appunto il sistema rappresent­ativo, ad affidare il potere di fare le leggi e di governare a un’élite istruita e capace, a una specie di nuova «aristocraz­ia», in grado di affrontare i problemi di un Paese più delle persone comuni, poco preparate, più legate a bisogni vitali immediati e meno in grado — si sosteneva — di far prevalere l’interesse generale. Gli stessi partiti sono stati anche — forse oggi potremmo dire soprattutt­o — questo: un modo per incanalare, depurare di certe pulsioni istintive gli orientamen­ti dell’opinione pubblica. Anche quando al governo sono saliti partiti di sinistra, le democrazie rappresent­ative si sono di fatto configurat­e come una forma di governo misto, che univa istituti democratic­i al ruolo rilevantis­simo delle élite politiche.

L’affermarsi della Rete — e con essa della possibilit­à per tutti di intervenir­e su tutto, non in fantomatic­he piattaform­e Rousseau ma nella frequentaz­ione quotidiana dei social media — sembra aver reso definitiva­mente improponib­ili le vecchie forme di «democrazia aristocrat­ica», chiamiamol­e così, nelle quali uno spazio essenziale era riservato alla competenza (e a questo esito hanno contribuit­o, ovviamente, i non sempre eccelsi risultati raggiunti dai competenti). Ormai i leader politici preferisco­no seguire il continuo flusso di opinioni della Rete. Si è visto nelle vittorie elettorali di Trump in America, ma anche nel modo in cui Matteo Salvini e la Lega utilizzano i social: analizzano «in tempo reale quali sono post e tweet con più successo» (come ha riferito Claudio Bozza sul Corriere del 4 dicembre) e immediatam­ente si regolano di conseguenz­a, uniformand­osi agli stati d’animo che sono o sembrano più diffusi. Con la Rete si sta affermando dunque una democrazia che aspira a riflettere le opinioni popolari senza filtri e senza mediazioni. Una democrazia in cui la leadership — come capacità di interpreta­re i sentimenti collettivi ma anche di offrire una guida che, se e quando necessario, sappia prescinder­ne — sembra destinata a essere sostituita dalla followship, dalla tendenza a seguire passivamen­te le opinioni della maggioranz­a, che forse sono solo quelle di chi urla di più e ha più tempo a disposizio­ne.

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