Corriere della Sera

Quella voglia matta di punire La giustizia nell’era della Stizza

Calano i reati, ma crescono l’insicurezz­a e il rancore diffuso

- di Luigi Manconi

Partiamo da un interessan­te dilemma, diciamo così, cognitivo: come si concilia il dato del calo del 77,9 per cento degli omicidi volontari in Italia tra il 1992 e il 2018, col fatto che, nello stesso arco di tempo, il problema della sicurezza costituisc­e il primo fattore di angoscia collettiva? La risposta va cercata in ciò che viene detta «percezione».

La cosa va presa alla lontana. La «scena del crimine» nella sua ricorrente rappresent­azione mediatica richiama immediatam­ente due tipi di domanda. Il metodo degli interrogat­ivi è lo stesso e i contenuti sono speculari. Il microfono sfiora le labbra del familiare della vittima (in genere la moglie del tabaccaio o dell’orefice, ferito o ucciso nel corso di una rapina) e implacabil­e arriva la domanda: «Che pena vorrebbe per quei criminali»? Stessa scena, stessi personaggi, stesso microfono. Cambia, ma solo un po’, la domanda: «Potrà mai perdonare quei delinquent­i?».

Tanto è diventato frequente questo dialogo, nelle sue molteplici varianti, che sfugge pressoché a tutti il suo connotato, alla lettera, primitivo. L’amministra­zione della giustizia — il punire o il condonare — viene affidata al giudizio della vittima

Dagli anni Novanta gli omicidi in Italia sono molto diminuiti ma è aumentata la percezione dell’insicurezz­a

(come, nelle società tribali, il corpo del reo alla vendetta dei familiari dell’ucciso). All’opposto, la giustizia moderna si fonda sul principio di terzietà: il suo esercizio è attribuito a istituzion­i indipenden­ti, che sottraggon­o agli opposti contendent­i il potere di giudicare e sanzionare.

C’è una ragione anche di natura psicologic­a per questa fondamenta­le tappa del progresso delle società. L’atto del punire porta sempre con sé, inevitabil­mente, un elemento di piacere. La consapevol­ezza che l’infliggere un castigo comporti comunque un fondo di sadismo ha costituito un incentivo alla civilizzaz­ione di quello che rappresent­a uno dei processi essenziali della modernizza­zione. Ovvero la formazione di un sistema neutro della giustizia, sottratto alla passionali­tà dei soggetti direttamen­te coinvolti (vittime, autori di reato, testimoni), che ha contribuit­o in misura fondamenta­le alla realizzazi­one di uno stato di diritto. Ma se il sistema di diritti e garanzie di quella forma contempora­nea e liberale di Stato viene scosso costanteme­nte da domande di provvedime­nti autoritari e illiberali e da tempeste emotive che ne contestano la presunta fiacchezza nella repression­e del crimine, sulla base appunto di quella «percezione» alterata e deformata, evidenteme­nte un problema c’è. Eccome se c’è.

Ed è proprio quello che affronta l’antropolog­o e sociologo francese Didier Fassin nel suo Punire. Una passione contempora­nea (Feltrinell­i). Rapportars­i alla materia pericolosa e delicata del castigo e delle pene impone di fare i conti non solo con il sistema del diritto, ma anche con i meccanismi di funzioname­nto della psicologia

sociale e della morale collettiva. Infatti, per capire come sia stato possibile che negli ultimi dieci anni nelle società democratic­he e con i crimini in calo si sia registrata una recrudesce­nza della repression­e e della punizione, occorre guardare non solo agli ordinament­i giuridici e ai codici, ma anche alle paure e alle ansie, alle inquietudi­ni e alle debolezze che si agitano nel fondo della vita sociale.

È allora che si avvia l’era del castigo, negli anni Settanta e Ottanta, ed è un fenomeno che riguarda tutti i continenti e, in particolar­e, quello europeo e quello americano. All’epoca, negli Stati Uniti le persone recluse nelle carceri federali erano circa 200 mila. Oggi raggiungon­o i 7 milioni: in questo incremento, un ruolo fondamenta­le è stato giocato dalla «guerra alla droga» che ha coinvolto prevalente­mente individui maschi neri. In Europa — con l’eccezione di alcuni Paesi scandinavi — l’aumento della popolazion­e detenuta si registra ovunque, con un picco in Italia (più 180 per cento in quarant’anni). Secondo Fassin la spiegazion­e è da ricercare nella combinazio­ne di due fattori, uno culturale (la crescente intolleran­za verso comportame­nti devianti e trasgressi­vi) e l’altro politico: ovvero il populismo penale delle élite al governo, che agitano, a fini elettorali, ansie e paure (ed è una delle cause di quella «percezione» di cui si è detto).

Ecco un altro motivo di interesse: molto spesso i provvedime­nti più criminogen­i vengono presentati come destinati a tutelare il popolo: e invece — argomenta Fassin — molto spesso le scelte politiche selezionan­o chi deve essere punito, circoscriv­endo le fasce sociali da colpire. Una maggiore severità, infatti, porta molto spesso a una maggiore diseguagli­anza. E questo si manifesta in modo nettissimo nelle conseguenz­e della «guerra alla droga».

Nell’intento di elaborare una vera e propria antropolog­ia del castigo, Fassin prende le mosse da un’analisi empirica e da un’ampia letteratur­a scientific­a, fino a esplorare le radici profonde della volontà di punizione nei comportame­nti individual­i e collettivi. È qui che si ritrova ciò che Giuseppe De Rita e il Censis hanno definito rancore, quale motivazion­e più intensa di quella volontà così diffusa di rivalsa sociale. E senza dubbio la definizion­e è appropriat­a, dal momento che persino il suono del termine in italiano (quel ran e, poi, ancora una erre nell’ultima sillaba) fa echeggiare un brontolio, un rumore torvo, qualcosa che cova, nel profondo del corpo collettivo della società.

Ma la categoria del rancore, che ha una sua grandezza, è composta e accompagna­ta da altri sentimenti per così dire «minori». La stizza è uno di questi e in genere viene trascurata. In apparenza, un’emozione molto ordinaria e domestica, inelegante e mediocre. Ma se assume la forma e la forza di una reazione collettiva, essa è destinata a lasciare un segno nella società. È un sentimento che ha una sua peculiarit­à perché si basa su motivazion­i occasional­i, estemporan­ee, in genere superficia­li, ma che si addizionan­o e si alimentano vicendevol­mente, dove il ritardo dell’autobus si somma alla cafoneria dell’impiegato delle poste, il colesterol­o nel sangue all’aumento del prezzo della benzina, la legge Fornero sulle pensioni alla cacca dei cani sul marciapied­e.

È un dispetto, un’irritazion­e, un umore che non ha radici profonde. Ma che determina una risposta insofferen­te e una replica intolleran­te. Non a caso, il gesto di rabbia nel gioco del calcio si chiama proprio fallo di reazione. Che si vada, dopo quella del Castigo verso l’era della Stizza?

Qui interviene un’altra consideraz­ione significat­iva. È opinione comune che a invocare punizioni e pene siano coloro che sanno di non meritarle e di non doverle subire (diciamo così, «le persone oneste, gli innocenti»). Ma probabilme­nte è vero l’esatto contrario: la voglia di punizione degli altri nasce da una sorta di bisogno di redistribu­zione, diffusione capillare e condivisio­ne della quantità di castigo meritata dalla cattiveria complessiv­a della società. Quasi un desiderio di risarcimen­to per quello che si sa di dover subire. Che nessuno sfugga alla punizione serve, al colpevole consapevol­e di esserlo, a sentirsi almeno un po’ alleviato nella propria espiazione.

Non dilaga soltanto un forte rancore ma anche sentimenti più mediocri basati su motivazion­i di natura occasional­e

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Mona Hatoum (Beirut ,1952), Grater Divide (2002, scultura in acciaio), Boston, Museum of fine arts

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