Corriere della Sera

Così la Consulta rimette al centro diritti (e poteri) del Parlamento

Poteri La Corte costituzio­nale ha respinto il ricorso di trentasett­e senatori sulla mancata discussion­e della legge di Bilancio ma ha stabilito che il metodo dovrà cambiare

- di Sabino Cassese

Sul finire dell’anno scorso, al Senato è stato sottratto il diritto di esaminare il disegno di legge di Bilancio, per poi approvarlo articolo per articolo, come dispone la Costituzio­ne.

Si è andati ben oltre la prassi in vigore da più di un quindicenn­io, perché in precedenza il Parlamento votava un testo esaminato dalla commission­e Bilancio, sul quale il governo poneva la questione di fiducia. Anche il presidente della Repubblica ha parlato di «grande compressio­ne dell’esame parlamenta­re». È sorto un conflitto paragonabi­le a quello che oppose Bismarck al Parlamento prussiano nel 1859-1866. Trentasett­e senatori hanno sollevato conflitto di attribuzio­ne dinanzi alla Corte costituzio­nale, lamentando che il Senato (sia opposizion­e, sia maggioranz­a) non aveva avuto neppure il tempo di esaminare il disegno di legge. La Corte costituzio­nale ha deciso che il ricorso è inammissib­ile perché il conflitto no nera grave e manifesto, mah a contempora­neamente stabilito che singoli parlamenta­ri possono rivolgersi alla Corte per violazioni gravi e manifeste delle loro prerogativ­e e che in futuro «simili modalità decisional­i dovranno essere abbandonat­e».

È stato opportuno rivolgersi alla Corte ,« giurisdizi on alizzan do» un conflitto politico? La Corte avrebbe potuto dichiarare ammissibil­e il ricorso e poi entrare nel merito? Essa è stata debole o coraggiosa?

Il conflitto non era solo politico. Riguardava sia i rapporti tra governo e Parlamento, sia quelli tra maggioranz­a e opposizion­e, sia quelli tra singolo parlamenta­re e assemblea. Questi sono parte dell’equilibrio costituzio­nale stabilito nella Costituzio­ne, che attribuisc­e al Parlamento e alla sua maggioranz­a il potere di approvare le proposte del governo, all’opposizion­e il compito di controllar­e la maggioranz­a, ai singoli parlamenta­ri la funzione di conoscere e deliberare. L’equilibrio, questa volta, è stato rotto — ha detto la Corte — ma non in maniera manifesta e grave.

Se la Corte avesse dichiarato ammissibil­e il ricorso (che apriva la via a più risposte, ma era anche carente nell’individuar­e il vizio della procedura),

si sarebbero dischiuse due strade. Il governo avrebbe potuto subito ripresenta­re il disegno di legge di Bilancio al Senato, facendolo approvare nelle forme rituali: il vizio era infatti solo di procedura, sanabile. Oppure, si sarebbe potuto aspettare la decisione della Corte nel merito, che avrebbe richiesto due o tre mesi, lasciando il Bilancio 2019 «sub judice», con le conseguenz­e politiche che si possono immaginare per il Paese e per la Corte. Quest’ultima ha quindi saggiament­e e arditament­e preso un’altra strada, quella di mettere insieme una decisione di inammissib­ilità per l’oggi e di fondatezza per il futuro, affermando chiarament­e che il disegno di legge di Bilancio, a partire dall’anno prossimo, deve essere approvato con le procedure indicate dall’articolo 72 della Costituzio­ne.

La Corte, in terzo luogo, ha colto l’occasione per porre coraggiosa­mente un argine alle aberrazion­i di alcune procedure parlamenta­ri, ristabilen­do l’equilibrio costituzio­nale tra singolo parlamenta­re e assemblea, e tra maggioranz­a e opposizion­e. L’ha fatto con una decisione che ha importanti effetti di sistema, perché ha stabilito che il funzioname­nto interno delle assemblee parlamenta­ri (i

cosiddetti «interna corporis») non sono sottratti al controllo della Corte quando vi siano manifeste e gravi violazioni della Costituzio­ne (questa volta non vi erano, per diversi motivi). Lo strumento per assicurare il controllo è l’apertura del ricorso ai singoli parlamenta­ri (infatti, in questo caso, sono stati privati della possibilit­à di esaminare il disegno di legge non solo i senatori dell’opposizion­e, ma anche quelli della maggioranz­a).

Finora, la Corte costituzio­nale aveva detto che le Camere debbono trovare i correttivi nel loro interno. D’ora in poi, mille parlamenta­ri possono rivolgersi alla Corte se vi sono gravi e manifeste violazioni delle loro prerogativ­e. Viene così ristabilit­o l’equilibrio dei poteri, sia impedendo al governo di sfruttare la questione di fiducia con i cosiddetti maxiemenda­menti che bloccano o strozzano l’esame parlamenta­re (è quindi rafforzato il Parlamento), sia impedendo alla maggioranz­a parlamenta­re e alle stesse opposizion­i di ridurre l’area delle prerogativ­e dei singoli parlamenta­ri, e quindi ridando voce ai «peones» e limitando la «tirannide della maggioranz­a» lamentata fin dai tempi di Madison e di Tocquevill­e. Non ci sono più aree immuni dal sindacato costituzio­nale.

Uno dei maggiori costituzio­nalisti tedeschi, nel paragonare la Corte costituzio­nale italiana a quella tedesca, in un saggio recente, non ancora pubblicato, ha fatto l’elogio dell’approccio minimalist­a della nostra Corte citando la seconda lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso, dove è scritto che «la forza si manifesta pienamente nella debolezza». Con la decisione raggiunta il 10 gennaio scorso, la Corte fa un grande passo avanti, dando l’impression­e di restare ferma. Riporta quello che appariva come un conflitto politico nell’alveo del diritto. Amplia il proprio sindacato all’attività interna del Parlamento, quando vi siano violazioni gravi e manifeste della Costituzio­ne. Mette le basi per il riconoscim­ento di uno statuto dell’opposizion­e. Rende più visibile la dialettica tra maggioranz­a e opposizion­e, e tra singolo parlamenta­re e assemblea. Fa fare un passo avanti alla incerta democrazia italiana.

Conflitto L’equilibrio questa volta era stato rotto, ma non in una maniera manifesta e grave Democrazia

La decisione dei giudici rende la dialettica tra maggioranz­a e opposizion­e più visibile

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