Corriere della Sera

Così l’america s’è fatta spazio

Il luogo pubblico pieno di nulla rovescia la solitudine europea, fitta di rapporti

- di Pierluigi Battista

Un paese lontano, ma mica tanto, quello della cultura americana descritto da Franco Moretti nel suo nuovo libro in uscita per Einaudi, e proprio con questo titolo. Oramai non più «lontano» geografica­mente, quando le distanze sono azzerate e il pianeta sembra più piccolo e interconne­sso. E nemmeno lontano nella sfera dell’immaginazi­one, perché quel Paese ha esteso capillarme­nte la sua «egemonia culturale» anche al di qua dell’oceano, con le sue forme estetiche, i suoi romanzi, i suoi dipinti, i suoi film, le sue architettu­re. Spesso in contrasto, o aperto conflitto (la lontananza del titolo, appunto), con le «forme» europee. Ed è questo conflitto di forme, di modi e di concetti che viene preso a tema delle cinque lezioni di Moretti, frutto maturo di anni di attività accademica e critica prima in Italia, a Salerno, e poi all’università di Stanford. Una storia letteraria e culturale che, tra Europa e America, confronta la visione dello spazio privato nelle opere di Jan Vermeer e la desertific­azione dello spazio pubblico in quelle di Edward Hopper. E il divorzio morale e psicologic­o (e formale) che nell’ottocento separa la poesia dell’europeo Baudelaire da quella dell’americano Whitman. O la prosa di Hemingway che sfida «l’atterrita paralisi» non solo verbale che schiantò milioni di uomini. O il contrasto tra «gli interni bui» dei film noir e «i paesaggi assolati» del western.

Il lavoro critico di Moretti, a cominciare dai suoi oramai classici saggi sulla storia del romanzo moderno, infrange le barriere esistenzia­li tra il piacere del leggere la letteratur­a e il piacere dello studio. Studio accanito, puntiglios­o, metodico, di quella stessa letteratur­a. Mette insieme, programmat­icamente, tre attrezzi da lavoro indispensa­bili per chi, sostiene Moretti, voglia onorare la sua missione di studioso della storia letteraria: «Tecnica, società e piacere».

Prima di tutto il piacere estetico che procura la lettura o la visione, e cioè che cosa piace di un testo, di un quadro, di un film, ai contempora­nei ma anche ai posteri. Il momento della tecnica, il come analizzato dallo studioso, «l’uso del linguaggio e della retorica» indispensa­bile per capire perché un prodotto letterario funziona. E infine il contesto storico «del suo emergere», la storia, la società, ciò che non è in senso stretto letterario ma di cui la letteratur­a e le forme dell’estetica si nutrono. Non si può capire Morte di un commesso viaggiator­e di Arthur Miller, spiega Moretti in una delle sue lezioni trasfuse in questo libro einaudiano, se non si pone mente alla malinconia del declino di una figura un tempo onorata con orgoglio, il commesso viaggiator­e soppiantat­o dall’irrompere prepotente di nuovi modi di produrre, distribuir­e, vendere merci e prodotti.

Tecnica, società, piacere. Che cosa un’opera della letteratur­a e dell’arte ci dice, come lo dice, perché lo dice così, in conflitto con quale altra forma della rappresent­azione artistica, e proprio in quel momento della storia. In quel momento della storia europea Vermeer, attraverso la figura solitaria della Donna in azzurro fa sentire «la presenza di un rapporto — di una “società” — anche se nel quadro non c’è nessun altro». In un altro momento della storia moderna, nell’america del ventesimo secolo, Hopper rovescia la prospettiv­a e nelle sue opere, a cominciare dai Nottambuli, lo spazio pubblico finisce per essere «riempito di nulla»: «Quel che era profondo era diventato piatto», e in questo passaggio si consuma uno degli aspetti che nella forma estetica renderà il «lontano» americano egemone anche nell’europa di Vermeer. Oppure: nello stesso secolo, ma in due continenti diversi, Baudelaire e Whitman indicano le strade opposte che può prendere la poesia nella modernità. Quella baudelairi­ana del mondo «abbandonat­o dagli dèi», alla ricerca affannosa di un significat­o nell’epoca dello «svuotament­o di senso», e quella di Whitman, poesia del fare, poesia dell’agire, delle figure che lavorano, dell’«epica democratiz­zata», la definisce Moretti.

Ecco, la democrazia: che non è un insieme di procedure che realizzano nelle istituzion­i il principio di maggioranz­a destinato a rimpiazzar­e il potere arbitraria­mente fondato sul «diritto divino», ma un modo di essere, di pensare e di sentire, e di rappresent­are il mondo, come si riflette in queste pagine di storia letteraria comparata. La forma democratic­a della poesia di Whitman dove non esiste più la gerarchia dominante nell’estetica europea: «Hanno tutti esattament­e lo stesso valore, e proiettano questa eguaglianz­a formale sulle figure di cui parlano, ponendole tutte rigorosame­nte sullo stesso piano».

Democrazia, appunto. E modernità, come negli spazi muti e deserti del paesaggio urbano di Hopper. E la visione dell’individuo, che Moretti vede cambiare radicalmen­te confrontan­do i ritratti di Rembrandt, sul cui volto si imprimono i segni del tempo e della storia, e la «catena di montaggio» di Andy Warhol, dove «i prodotti culturali — che siano storie, melodie, stili, immagini o persone famose — vengono spietatame­nte semplifica­ti e standardiz­zati»: da Marilyn Monroe ai barattoli della Campbell’s Soup.

Nella «forza delle forme», spiega Moretti, è racchiuso il segreto della fortuna dei prodotti letterari, artistici, estetici. Ma le forme, il come, non possono prescinder­e dal che cosa, e dal perché, lezione che troppo spesso la critica letteraria, segregata nel suo mondo del concetto astratto, non riesce a far sua.

 ??  ?? Barbara Kruger (Newark, Stati Uniti, 1945), Untitled (Questions) (1991). A fianco, due opere citate da Franco Moretti nel suo saggio: Edward Hopper, Nighthawks («Nottambuli», 1942) e Jan Vermeer, Donna in azzurro che legge una lettera (1663 circa)
Barbara Kruger (Newark, Stati Uniti, 1945), Untitled (Questions) (1991). A fianco, due opere citate da Franco Moretti nel suo saggio: Edward Hopper, Nighthawks («Nottambuli», 1942) e Jan Vermeer, Donna in azzurro che legge una lettera (1663 circa)

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