Corriere della Sera

LA GERMANIA E I SUOI MITI AVVELENATI

Torna Furio Jesi, con inediti

- Di Donatella Di Cesare

Singolare destino, quello di Furio Jesi, intellettu­ale poliedrico, egittologo e antichista, germanista e storico delle religioni, così presto dimenticat­o dopo la sua morte prematura, avvenuta nel 1980, quando non aveva ancora quarant’anni. Eppure a lui si devono libri attualissi­mi che vale la pena rileggere. Ad esempio la raccolta Cultura di destra, che contiene pagine su Giosue Carducci, Gabriele d’annunzio, Luigi Pirandello, Julius Evola, sull’antisemiti­smo e sul neofascism­o, uscita qualche anno fa, nel 2011, dalla casa editrice nottetempo, che ora pubblica la nuova edizione (con testi inediti) di un’opera originalis­sima del 1967: Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ’900 (pagine 384, 18). L’ha curata Andrea Cavalletti che ha scritto un saggio introdutti­vo.

Ebreo torinese, esponente di quella intellighe­nzia di sinistra che sembra oggi scomparsa o messa a tacere, Jesi è stato quasi ossessiona­to dall’inquietant­e domanda sulla tradizione tedesca e sulle origini del nazismo. In che modo da quella cultura, che lui amava e ammirava, è scaturita la religione della morte che ha alimentato il dodicennio nero? Jesi interroga scrittori, intellettu­ali, filosofi.

Emblematic­he sono le parti dedicate a Thomas Mann, simbolo della borghesia tedesca e della sua parabola di complicità, autore di quelle Consideraz­ioni di un impolitico, che testimonia­vano già nel 1918 l’adesione al germanesim­o, la polemica patriottic­a contro i pacifisti, il rifiuto della democrazia occidental­e.

Ma Thomas Mann si fermò, anche se era già troppo tardi, se non altro per denunciare quel che accadeva già nella Repubblica di Weimar e per cercare in quella stessa cultura tedesca le «forze guaritrici». Le cose andarono diversamen­te per Gottfried Benn, un «grande poeta», e per Martin Heidegger, un «grande filosofo» che, oltre tutto, in quanto sudditi di Hitler, conobbero le mostruosit­à del nazismo.

PÈ il mito la chiave di volta dell’ermeneutic­a di Jesi, amico e per molti versi allievo del famoso filologo e storico ungherese Károly Kerényi. Il mito è racconto spontaneo, narrazione condivisa, fino a quell’articolazi­one dell’inconscio collettivo di cui parlava Gustav Jung; ma proprio per questo può diventare anche strumento di propaganda politica, come avviene nel fascismo europeo. Allora l’irrigidito mito del passato, viene piegato per rivitalizz­are il presente: il suo potere coesivo, intensific­ato dai mezzi di comunicazi­one, spinge le masse alla sottomissi­one, fino all’ingresso incauto nel totalitari­smo. Così scrive Jesi: «Nella cultura tedesca degli ultimi cent’anni il mito sembra essere di volta in volta medicina e veleno, sorgente di rinnovato umanesimo e strumento di barbarie e di delitto». Sta qui il segreto: nella vicinanza, quasi intimità, tra le forze misteriose dell’arte e gli orrori demonici.

PAlla luce di questa ermeneutic­a Jesi può allora indagare l’esoterismo nazista smascheran­dolo come «alterazion­e del mito». Valga per tutti l’esempio della «Società Thule», a cui appartenev­ano Dietrich Eckart e Alfred Rosenberg, ideologi del Terzo Reich. Si trattava di un gruppo molto attivo in Germania già ai primi del secolo, il cui nome era ripreso dalla mitica Thule, l’isola scomparsa nell’estremo Nord, quella civiltà perduta e rimpianta, da cui un giorno — così nel racconto nazista — sarebbero sorte le potenze capaci di preconizza­re l’uomo nuovo hitleriano. Di affascinan­ti miti segreti e pratiche magico-rituali è pieno il nazismo — spiega Jesi, che è stato tra i primi a indagare anche il mito del sangue.

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