La barba finta poi le lacrime «Stavolta è finita»
Il racconto della cattura: la pista delle pizzerie, in tasca aveva solo monetine
L’alito gli sa di birra. Ne ha bevuta parecchia anche oggi. Beve solo quella, marca Huari. Quando il poliziotto boliviano gli punta in faccia la pistola, gli urla di congiungere le mani dietro la nuca e di poggiare le ginocchia sull’asfalto, Cesare Battisti si abbassa lentamente, quasi nella paura di perdere l’equilibrio.
Quel poliziotto boliviano è sceso dalla macchina lanciando in aria la sigaretta appena accesa, ha attraversato di corsa la strada, estratto l’arma e urlato «Cesare fermati!». Lui, il terrorista, ha obbedito. Nella convinzione che fosse un banale controllo. Uno dei tanti controlli muscolari che fanno da quelle parti. Invece è stata la sua fine.
Quella che segue, è la ricostruzione della cattura, raccontata dal Corriere grazie a fonti dell’intelligence italiana e straniera. Le 17 di sabato scorso, le 22 in Italia. Santa Cruz de la Sierra. Una città popolosa, cosmopolita e di narcotrafficanti. Tre caratteristiche decisive nella scelta logistica del latitante.
Gli spiccioli e la coperta
In una tasca dei pantaloni, di cotone e di colore blu come la maglietta, Battisti ha l’equivalente in monete locali di tre euro. Dopo giorni di pioggia, è un sabato caldo e umido, ma il terrorista non ha tracce di sudore in fronte, sul viso coperto dalla barba e sui vestiti. Cammina da poco. È appena uscito dall’ultima tana, a cento metri dal monumento del Chiriguano, nel secondo anello urbano di Santa Cruz de la Sierra, non lontano dal centro e dalla bassa caserma della polizia, dove Battisti, accompagnato velocemente, si siede davanti a un tavolo di legno, farfuglia frasi in spagnolo e infine avanza un’unica richiesta: «Vorrei dormire, avete una coperta»?.
Lo faranno stendere sul divano della sala comune della caserma, quella che serve agli agenti per pranzare, guardare le partite di calcio e caricare i telefonini alle prese al muro. Battisti si coricherà su un fianco. Riposerà tranquillo. Ancora sicuro che ce la farà anche stavolta; che lo salveranno i soldi, i tanti soldi pagati ai criminali per garantirgli una rete di covi, e che lo hanno terribilmente indebitato; ancora sicuro che la caccia si perderà nei sistemi di potere sudamericani che mischiano corruzione, trattative tra Stato e anti-stato, commando che eliminano gli avversari con le bombe. Si sbaglia. Gli stanno dietro da Natale. Ormai gli sono addosso.
La ricerca di protezioni
Queste sono catture che accelerano le carriere. Di solito non della truppa, però. E questa è una storia di truppa. Sparuta. Agguerrita. Tre investigatori italiani dell’interpol (un finanziere e due poliziotti) e quattro agenti boliviani, onesti e orgogliosi. È vero che è quel poliziotto boliviano a scorgere dal finestrino uno che può somigliare a Battisti, che gira tre video con il cellulare, e che li invia ai colleghi. Ma dopo aver ricevuto la conferma di procedere, perché dai «match» sul computer, confrontando le vecchie fotografie a disposizione, quel viso «appartiene» al terrorista nel settanta per cento dei casi, l’agente sente arrivare alle spalle il resto della squadra. Sono tutti già lì, in zona. Da un paio di giorni, a costo di azzardare, le ricerche si sono concentrate proprio nel secondo anello urbano.
Che Battisti fosse scappato in Bolivia, era stata un’immediata base investigativa. Individuare in quale luogo fosse, è stato un minuzioso, maniacale, sfiancante lavoro artigianale. La mappatura, enorme, dei telefonini di personaggi legati al mondo della mala, personaggi che a loro volta hanno permesso di agganciare pezzi grossi; l’incrocio tra quei cellulari e altri numeri che si credeva fossero in uso al latitante o comunque a chi lo custodiva; giorni e notti a leggere, sottolineare, barrare, per cristallizzare precise aree; e di nuovo giorni e notti a camminare, chiedere porta a porta, raccogliere testimonianze da verificare. Le fonti boliviane sostengono che Santa Cruz de la Sierra sia stato uno dei tanti posti abitati da Battisti, che ha avuto a disposizione un consistente gruppo di fiancheggiatori, sembra fornito dai narcotrafficanti, e un altrettanto elenco di appartamenti, ripetutamente cambiati per non lasciare indizi.
Forse è stato anche a La Paz, per garantirsi coperture politiche. Forse ha trovato ospitalità nei villaggi difficili da raggiungere e dove la gente non fa domande per non morire assassinata. Quale fosse il piano di Battisti a lungo termine, forse lo dirà lui stesso. Ma quanto davvero avrebbe resistito? L’assenza di soldi aveva iniziato a tormentarlo. Così come le pressioni di chi voleva saldati i prestiti. E che potrebbe anche averlo venduto oppure barattato informazioni preziose. Insieme a quegli spiccioli, in tasca il terrorista aveva un documento d’identità brasiliano. Il suo personale: ovvero l’esatto nome, Cesare Battisti, e l’esatta data di nascita, il 18 dicembre 1954.
Le lacrime
La scelta di non comprare un documento falso è legata alla certezza che non l’avrebbero mai scoperto. A maggior ragione a Santa Cruz de la Sierra, una città di varie nazionalità dove un non boliviano non si nota né desta sorpresa fra i vicini di casa. Oltre alla birra, Battisti viveva di pizza, consumata sui tavolini all’aperto dei ristoranti. Non a caso, una delle decisive chiavi della ricerca investigativa s’è concentrata sulle pizzerie. E ugualmente, gli sbirri le hanno battute tutte, hanno osservato i clienti, interrogato il personale, invitato i titolari a staccare dalla cassa il tempo necessario per smuovere i ricordi. Ha visto questa faccia? Quanto tempo fa? Con chi era quell’uomo? C’era il timore, realistico, che il terrorista avesse delle guardie armate oppure che avesse finanziato una contro-caccia, per stanare gli inseguitori e tendere trappole letali. Ma era solo. E solo Cesare Battisti è rimasto. Nessuno s’è mosso per tirarlo fuori dalla caserma. L’ha capito, il terrorista. E per due volte l’hanno visto singhiozzare.