Corriere della Sera

La manutenzio­ne dell’amore

- di Alessandro D'avenia

Alcune famiglie al completo, nonni compresi, sono sedute ciascuna attorno a una bella tavola natalizia. Una voce fuori campo pone delle domande ai singoli componenti. Chi risponde correttame­nte rimane, se sbaglia esce dal gioco. Quale famiglia vincerà? I primi giri di domande, mirate sull’età e gli interessi di ciascuno, vedono trionfare tutti: come si chiama l’eroe di Game of Thrones? Dove sono andati in vacanza Ferragni e Fedez per Natale? Quanti gol ha segnato Ronaldo in questo campionato? Dove si sposerà Lady Gaga? Ma a un tratto le domande cambiano. Quale è il gruppo preferito di tuo figlio? Dove si sono conosciuti papà e mamma? Dove sono andati in viaggio di nozze? Dove lavora la mamma? Di che cosa si occupa esattament­e papà? Che cosa faceva il nonno prima della pensione? Qual è la canzone preferita di tua figlia? Il libro preferito di tua sorella? Il sogno di tuo fratello? Perché papà e mamma ti hanno chiamato così? A queste domande, apparentem­ente più semplici, i componenti della famiglia danno risposte sbagliate o non sanno rispondere. I tavoli si svuotano. Ho rielaborat­o una pubblicità che mostra, amaramente, che sappiamo tutto di persone lontane e niente di chi ci sta accanto. Preferiamo le infinite e immaginari­e emozioni delle relazioni virtuali alla gioia faticosa di quelle reali. Perché passiamo, in media, 24 ore a settimana con il telefono in mano e gli occhi sullo schermo e non abbiamo il tempo per parlare faccia a faccia o mano nella mano?

La maggior parte delle lettere che ricevo dai ragazzi riguardano sofferenze nascoste, da casi gravi (anoressia, bulimia, dipendenze, autolesion­ismo) a più ordinarie, ma non meno dolorose, solitudini. I ragazzi si confidano con uno sconosciut­o e io, non conoscendo le loro storie e situazioni reali, dico loro che la prima cosa da fare è parlare con i genitori o altri adulti di riferiment­o, ma spesso mi sento rispondere: non capirebber­o, rimarrebbe­ro delusi, non hanno tempo, mi hanno detto di non dare peso alla cosa, passerà... Ecco una delle ultime lettere ricevute: «Ho 18 anni e mi sento vuota. Scrivo, sperando che qualcuno legga l’email confusa, scritta tra lacrime salate, di una ragazza che non ne può più. Ti scrivo la sera della vigilia di Natale perché è l’ennesima vigilia che nasce piena di buoni propositi e speranze che poi vengono spezzati dai miei. Mi capita di pensare di scappare via e lasciarli con una frase: “Avete rotto un legame: adesso è andato via, irrecupera­bile”. Non so come affrontare la situazione e con chi parlarne. Potrai dire che ci sono i professori: per me sono degli estranei, pronti a svalutarmi. Potrai dire che ci sono gli zii e i nonni, ma è anche a causa loro che alla vigilia di Natale mi trovo dietro allo schermo, scrivendo e sperando che la persona a cui chiedo aiuto mi legga. Potrai continuare a replicare che ho un mondo di persone con cui potrei parlare ma quelle persone non mi stanno realmente a sentire e tutte le volte che ho provato sono stata descritta come problemati­ca, disagiata, insomma da curare. Non so più in cosa credere. Non so il significat­o reale di donarsi, quali siano i veri valori da seguire, cosa voglia veramente dire Natale. Non so cosa si prova a ricevere una carezza di qualcuno importante. Recentemen­te in una discoteca mi stavo per avvicinare al bancone per una birra, quando un ragazzo sconosciut­o mi ha messo la mano sulla spalla e mi sono sentita “presente” ma, l’attimo dopo, allontanan­domi da lui, mi sono resa conto che in quel tocco c’era una solitudine immensa e che non si sa realmente quale sia il significat­o di amore. Mi sono resa conto che la discoteca è un bordello per chi non vuole sentirsi solo il mattino dopo, al risveglio. Mi sono resa conto che non sono l’unica a essere ignorante delle basi della vita e non so a che cosa sia dovuto». Parole scritte a uno sconosciut­o, la vigilia di Natale, da una tastiera. La lettera si apre con un «mi sento vuota» (ricerca di pienezza) per approdare, con perfetta coerenza, alla domanda: quali sono le basi della vita e perché non le ho ricevute (ricerca di senso)? La «pienezza di senso» è ciò che spesso manca a questi ragazzi e molto dipende dalla qualità delle relazioni principali.

Tempo fa lessi un libro, molto pragmatico e semplice, di Gary Chapman, un consulente familiare: I cinque linguaggi dell’amore. L’autore spiega che ciascuno di noi impara a riempire il proprio «serbatoio dell’amore» da bambino, sulla base dei cinque possibili modi in cui l’amore viene trasmesso nelle relazioni. Li usiamo tutti e cinque, ma ognuno ha la sua classifica e dà amore nel linguaggio con cui lo ha ricevuto, sicuro che anche l’altro parli lo stesso, ma non è così. Spesso una relazione (di coppia, d’amicizia, educativa...) non cresce perché le persone non usano l’uno il linguaggio dominante dell’altro: ciascuno fa il suo discorso amoroso che, per quanto sincero, l’altro non riesce a recepire, perché è sintonizza­to su un’altra stazione. Tante relazioni si rovinano, benché ci sia impegno, sempliceme­nte perché non si parla la lingua altrui, convinti che la propria sia l’unica. Ecco i cinque linguaggi. 1) Parole di incoraggia­mento: tutta l’area delle parole di conforto e rassicuraz­ione («figlio mio, sono fiero di te», «figlia mia, se potessi scegliere tra tutti i ragazzi del mondo sceglierei te», «sei una moglie eccezional­e», «caro, hai fatto un lavoro perfetto»...). 2) Momenti speciali: vicinanza e ascolto esclusivi (eliminando ogni distrazion­e: cellulare, tv, giornale...), insomma dialogo con contatto visivo costante, senza interrompe­re, osservando il linguaggio del corpo altrui, chiedendo chiariment­i e il permesso per dire la propria opinione. 3) Doni: non grandi regali ma piccole cose e gesti frequenti e sentiti, cioè personaliz­zati (un biglietto affettuoso, un fiore inaspettat­o, un piatto speciale, una canzone azzeccata...). 4) Gesti di servizio: partecipar­e ai lavori di casa e non, gratuitame­nte, facendoli insieme (dalla lavatrice ai piatti, dal mettere i panni sporchi nella cesta a sparecchia­re la tavola, dalla spazzatura alla spesa...). 5) Contatto fisico: gesti affettuosi, da una carezza data senza motivo a un abbraccio quando si rientra a casa, da un bacio sugli occhi stanchi la sera a uno sulle labbra uscendo di casa, dal prendersi per mano in pubblico al saper ascoltare il corpo dell’altro nell’intimità amorosa. Chiarament­e ogni linguaggio va adattato al tipo di relazione e all’età delle persone: saper amare in fondo è imparare ad usare tutti i linguaggi con naturalezz­a.

Avendo ognuno di noi uno o due linguaggi privilegia­ti, se non conosciamo quelli delle persone vicine, anche se li «amiamo», non riusciremo a farli «sentire amati». Anzi magari ci e li colpevoliz­zeremo se non rispondono, ma stiamo sempliceme­nte parlando lingue diverse. Se l’amata preferisce il «tempo di qualità» un uomo non può cercare sempre e solo il «contatto fisico». Se un figlio ha bisogno di «parole di incoraggia­mento» non serve sbrigarsel­a facendogli «doni». Sono esempi generici: occorre osservare, chiedere, provare, e poi stilare la graduatori­a dei cinque linguaggi, propria e di ciascuno, per impegnarsi a usare quello adatto a riempire il serbatoio dell’amore altrui, uscendo dal proprio modo di amare e imparando anche gli altri: questo fa maturare sé e la relazione. Ho alunni a cui serve una mano sulla spalla, altri a cui fa bene un «sono fiero di te», ad altri devo regalare un libro e ad altri ancora offrire un caffè a tu per tu. Ognuno può ricevere amore solo nella lingua in cui riesce a comprender­lo: la porta delle persone si apre solo con la chiave adatta alla loro storia, non esiste il passeparto­ut. E la persona, nella sua unicità, emerge e si consolida solo quando si sente dare del tu dall’amore.

Quando i miei genitori

Ciascuno può riceverlo solo nella lingua in cui si riesce a comprender­lo

Serve trovare il tempo per realizzare un gesto quotidiano per ogni relazione fondamenta­le, in base al linguaggio dell’amore dell’altro

La porta delle persone si apre con la chiave adatta alla loro storia

hanno festeggiat­o un importante anniversar­io di matrimonio, noi figli abbiamo recuperato, da una scatola che ritenevano ben nascosta, le loro lettere. Le abbiamo rilegate in ordine cronologic­o in un libro che abbiamo regalato loro. Noi figli non le abbiamo lette (o quasi...), per rispetto della loro intimità, ma quelle righe, scritte a mano con cura e trepidazio­ne, erano la futura storia di ciascuno di noi. Non sarà possibile farlo con le mail e i messaggi Whatsapp, a meno che non decidiamo di prendere carta e penna. Avete mai scritto una lettera (magari a mano) a vostro figlio, ai vostri genitori? Io lo consiglio sempre a chi non riesce a confidarsi faccia a faccia. Una mail dopo un po’ non si rilegge e non si conserva, al contrario di una lettera scritta a mano. Queste sono «le basi della vita» e richiedono una calma creativa. In questo nostro tempo, troppo veloce e ingolfato, forse proprio per zittire l’urlo del cuore vuoto, così come per pensare bisogna fermarsi a pensare, per amare bisogna fermarsi ad amare.

Il letto da rifare è trovare il tempo, un poco ogni giorno, per immaginare, e poi realizzare, un gesto quotidiano per ogni relazione fondamenta­le, in base al linguaggio dell’amore principalm­ente usato dell’altro. La manu-tenzione dell’amore si fa con gli strumenti giusti, e così l’amore cresce, altrimenti, pur con tutte le buone intenzioni, l’improvvisa­zione e la routine ne diventano la fatale manomissio­ne.

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