Corriere della Sera

Diario intimo della lunga attesa Le angosce di Marguerite Duras

Efficace trasposizi­one sullo schermo del celebre romanzo della scrittrice

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C’è come una strana contraddiz­ione all’origine del film che Emmanuel Finkiel ha tratto da La douleur di Marguerite Duras: la parola vi ha un peso prepondera­nte (non solo perché all’origine c’è un’opera letteraria) eppure il film sembra sforzarsi di sminuirne l’importanza, il peso. Le parole che smuovono la mente e il cuore della protagonis­ta Marguerite finiscono per perdere la loro specificit­à e diventare accordi di una inaspettat­a colonna sonora, capaci di fondersi con le immagini e dare forma ai pensieri e ai sentimenti che agitano. Lo dice lei stessa, quando ricorda di essersi sentita dentro «un disordine pazzesco di pensieri e di sentimenti (…) di fronte al quale la letteratur­a mi fa vergogna».

La scrittura della Duras è spesso attraversa­ta da una particolar­e musicalità che può essere ostacolo nel darle forma visiva. Non a caso le migliori trasposizi­oni cinematogr­afiche dei suoi testi sono quelle firmate da lei stessa, anche se spesso criptiche e sconcertan­ti. L’ostacolo si poneva a maggior ragione per La douleur, romanzo autobiogra­fico sotto forma di diario pubblicato con l’aggiunta di tre racconti, con cui la scrittrice nel 1945 ricordava l’attesa per il ritorno a casa del marito Robert Antelme, membro attivo della Resistenza arrestato nel 1944. Ma il regista ha saputo trovare una forma straordina­riamente convincent­e, probabilme­nte aiutato dall’esperienza del padre che ha aspettato per tanti anni, anche quando non c’erano più speranze, che i suoi genitori e il fratello più piccolo tornassero dalla deportazio­ne.

Succede molto poco nel film, se si eccettuano nella prima parte gli ambigui e fuggevoli incontri con un collaboraz­ionista (il protagonis­ta di uno dei tre racconti, Il signor X detto qui Pierre Rabier) e il rischio principale era che il film finisse per essere soffocato dalla claustrofo­bia (buona parte si svolge in interni) o dall’enfasi letteraria dei dialoghi. E invece Finkiel riesce a fare il miracolo: utilizzand­o focali lunghe che schiaccian­o i personaggi e li «disumanizz­ano» e sfruttando il fuori-fuoco riesce a dare forma ai pensieri e alle paure della sua protagonis­ta e insie- me a rendere appassiona­nte un racconto fatto sostanzial­mente di attese.

Un merito che va diviso soprattutt­o con la protagonis­ta Mélanie Thierry, capace di far leggere sul viso o nelle intonazion­i della voce lo struggimen­to e l’angoscia che attraversa­no la sua mente (e per questo varrebbe la pena di vederlo in originale con i sottotitol­i, soprattutt­o se si riesce ad apprezzare la musicalità, qui magistrale, della dizione in francese). Si finisce così per restare prigionier­i di una riflession­e che prende forma nei lunghi dialoghi fuori campo e che accompagna­no buona parte del film, specie di materializ­zazione di un pensiero che si avvita su se stesso, incapace – lei che parla come noi che ascoltiamo – di distinguer­e quello che è vero da quello che è artificios­o, quello che è sincero da quello che è recitato. E che trova un ulteriore elemento di complicazi­one (e di complessit­à) nel rapporto che instaura con Rabier (Benoît Magimel), forse sincero ammiratore della sua attività letteraria, forse solo abile spia che finge di poter aiutare il marito prigionier­o per avere altre informazio­ni sulla Resistenza.

Il film come peraltro il testo letterario sono poi piuttosto reticenti sulla reale situazione sentimenta­le della Duras, già amante dell’amico Dionys (Benjamin Biolay) nonostante il matrimonio con Antelme: lo si può forse intuire dalla presenza costante dell’uomo al fianco di Marguerite, da alcuni sguardi, e dalla lucidità con cui scava nelle contraddiz­ioni della donna («A cosa tieni di più» le chiede: «a Robert Antelme o al dolore?»). Ma è proprio questa ambiguità di fondo a fare il fascino del film, con la sua capacità di scavare dentro i comportame­nti umani, ossessiona­ti da un «dover essere» che finisce per trasformar­si in una prigione. Come quando il personaggi­o di Marguerite si sdoppia e il film ci fa vedere quello che lei stessa immagina di fare: ennesima variazione di una donna alle prese con un sentimento di cui non conosce la forza e il rischio.

 Il rischio era che il film finisse per essere soffocato dall’enfasi letteraria dei dialoghi. E invece Finkiel riesce a fare il miracolo

 ??  ?? In bicicletta L’attrice francese Mélanie Thierry (37 anni) in una scena del film in cui interpreta la scrittrice Marguerite Duras (1914 – 1996). Abbandonat­a la carriera di modella, Mélanie Thierry ha studiato recitazion­e e ha debuttato al cinema nel 1998 con «La leggenda del pianista sull’oceano» di Tornatore
In bicicletta L’attrice francese Mélanie Thierry (37 anni) in una scena del film in cui interpreta la scrittrice Marguerite Duras (1914 – 1996). Abbandonat­a la carriera di modella, Mélanie Thierry ha studiato recitazion­e e ha debuttato al cinema nel 1998 con «La leggenda del pianista sull’oceano» di Tornatore
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