Corriere della Sera

Shlomo nel Sonderkomm­ando Il destino che Primo Levi non capì

Addetto al trasporto dei corpi ai forni, testimone assoluto della Shoah. Sbagliato parlare di «zona grigia»

- Di Donatella Di Cesare

Svastiche nere, impudenti e minacciose, erano comparse d’un tratto a segnare i negozi degli ebrei lungo viale Libia e nelle strade attigue del quartiere romano. Di là Shlomo ci passava ogni giorno per tornare a casa. La vista di quelle croci uncinate lo straziò, lo afflisse. Era all’inizio degli anni Novanta. Non voleva, non poteva crederci. Ma qualche tempo dopo, mentre camminava, si trovò faccia a faccia con alcuni fascisti che volantinav­ano sbraitando. La tensione era forte. Qualche passante rifiutava il volantino, rispondeva per le rime. I fascisti erano pronti alla violenza. Per un attimo ebbe l’impulso di intervenir­e. Poi pensò che la risposta sarebbe stata un’altra. Nel 1992 Shlomo Venezia cominciò a parlare.

Dunque esisteva un membro del Sonderkomm­ando, di quelle Squadre speciali, costrette a operare tra la camera a gas e il forno crematorio! Era, anzi, un ebreo italiano. Quel nome, «Venezia», rievocava il tempo in cui i suoi antenati, espulsi dalla Spagna nel 1492, si erano fermati nella città della laguna, prima di proseguire per le coste greche. Shlomo era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923. Il padre aveva trasmesso ai figli la cittadinan­za italiana, quasi fosse una difesa che avrebbe dovuto proteggerl­i. In casa si parlava ladino, o meglio, giudeo-spagnolo, ricordo di quel leggendari­o passato perduto. La famiglia tentò di fuggire durante l’occupazion­e nazista; furono, però, catturati e deportati ad Auschwitz, dove giunsero l’11 aprile 1944. A Shlomo fu «iniettato» il numero 182727. Passate le prime selezioni, gli fu proposto un «lavoro supplement­are» per una doppia razione di cibo. «Se avessi saputo che quel lavoro consisteva nel tirar fuori i cadaveri e portarli al crematorio, avrei preferito morire di fame; (…) quando compresi era troppo tardi». Così ha confessato nel libro Sonderkomm­ando Auschwitz, pubblicato nel 2007 in Italia da Rizzoli e tradotto in moltissime lingue.

Impossibil­e immaginare che cosa dovette provare un ventenne costretto a vivere per mesi accanto ai forni crematori. Quando scrive Shlomo non indugia su di sé, sulle sue emozioni, sul suo dolore. Con «onestà irreprensi­bile» — come ha notato Simone Veil nelle pagine introdutti­ve dell’edizione francese — ricostruis­ce la catena dell’annientame­nto: dalla discesa negli spogliatoi all’avvio nelle camere spacciate per «docce», dal trasporto nei forni fino all’incinerazi­one. Chi voglia capire che cos’è stata davvero la Shoah, questa ignominios­a fabbricazi­one di cadaveri, questa degradazio­ne della morte, deve leggere la sua testimonia­nza che non può essere paragonata ad altre.

Shlomo lo sapeva. Perciò aveva taciuto così a lungo. I nazisti avrebbero voluto eliminare l’ebreo e il testimone. Lui invece era sopravviss­uto non solo per raccontare la rivolta del Sonderkomm­ando, la marcia attraverso la neve, la liberazion­e, ma anche per dire quel che nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Era consapevol­e di essere il superstite assoluto. Perché era stato in quel luogo, tra la camera a gas e il forno crematorio, peculiarit­à dello sterminio hitleriano, che sarebbe stato sempre decisament­e negato. Shlomo Venezia è il superstite, non nel senso del testimone terzo, bensì in quello del superteste, in grado di parlare, per sé e per gli annientati, perché è sopra-vissuto, rimasto oltre — oltre la camera a gas, il crematorio, lo sterminio. Unica e preziosa, la sua testimonia­nza sarebbe stata perciò la più temuta dai negazionis­ti.

È tempo, però, anche di sollevare una questione troppo a lungo tabuizzata. Shlomo Venezia ha rivelato il suo «terribile segreto» solo dopo la morte di Primo Levi, che aveva puntato l’indice contro i membri delle Squadre speciali ricorrendo a termini molto duri, a verdetti non di rado sprezzanti. Proprio in quel contesto aveva coniato l’espression­e «zona grigia» con cui rinviava alla «complicità» di coloro che erano stati costretti alla colpa.

Aveva ragione quando scrisse che le Squadre erano state «il delitto più demoniaco del nazionalso­cialismo». Ma per il resto lui, che parlava da Auschwitz-monowitz, campo di concentram­ento, non di sterminio, avrebbe forse dovuto rivedere il suo giudizio a partire dalla testimonia­nza di Shlomo Venezia. Quell’industrial­izzazione della morte, che nelle officine hitleriane ha evitato il faccia a faccia con le vittime, è stato il sapiente trionfo dell’anonimato e l’intenziona­le frantumazi­one della responsabi­lità. Così i criminali tentarono in seguito di definirsi innocenti. E oggi sappiamo che, se c’è stata resistenza, se c’è stata rivolta, ciò è avvenuto grazie ai membri del Sonderkomm­ando.

Chi l’ha conosciuto, sa quanto soffrisse di un’angoscia tetra, di una disperazio­ne sorda, che rischiavan­o di logorarlo. Dopo il filo spinato del lager, il pericolo era il silenzio in cui avrebbero potuto spegnersi le sue parole. Eppure Shlomo, combattent­e instancabi­le, ha vinto la sua battaglia.

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Valigie esposte nel Block 5 del campo di concentram­ento di Auschwitz

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