Parigi, il formale è sovversivo
Le collezioni Le passerelle maschili francesi recuperano grisaglie, giacche e cravatte. Da Louis Vuitton a Dior, Valentino, Van Noten torna il classico (rivisto e corretto) fra nostalgia, romanticismo e qualche stereotipo
Si interroga questo benedetto (nuovo) giovane uomo. Si interroga sopratutto se sia il caso di continuare a camminare, dinoccolato e dondolante, con le sue sneaker e i suoi jeans e le sue felpe anche dopo l’università e i master e gli stage. Non lo fa lui direttamente certo, ma la moda e chi per essa, cioè gli stilisti che prima quel ragazzo se lo sono andati a cercare, fra una lezione e un esame e un’ape-cena, andandogli incontro incuriositi da subculture e rap e trap, e ora «trascinandolo» nell’universo, a lui sconosciuto, delle grisaglie e delle giacche e delle cravatte. E il cosidetto «formale» è il dissacrante che avanza. Qui a Parigi, addirittura, più che a Milano. Infarcito di nostalgia e romanticismi e persino di qualche stereotipo di troppo. Poi c’è chi come Dries Van Noten, stilista elegante prima ancora intellettualmente che in abiti, comincia la sua sfilata con Proust recitato da Marcello Mastroianni e spiega il momento: «I paradisi migliori sono quelli perduti».
E poi una camicia bianca e una giacca e una cravatta nere: precise, impeccabili. Sintesi e partenza per arrivare a completi (giacche over come i pantaloni) spesso monocromatici (grigi e beige e gessati) persino commoventi per pulizia e leggerezza di presenza anche nelle impreviste stampe tie&die che sono la chiosa: «I paradisi più attraenti sono quelli che ancora non sono stati vissuti».
Ad ognuno il proprio: da Berluti, Kris Van Assche, per
esempio, li esplora con colori che azzarda e azzecca puntando sul rosso e sul fucsia forte di completi precisi e accessori raffinati. E c’è anche Pier Paolo Piccioli che non rinnega certo («lo street wear non è finito semplicemente perché non è una moda ma uno stile di vita») però con Valentino dialoga, contamina, include, evolve. Un desiderio forte di semplicità che si ritrova ancora nei blocchi di colore (trench, giacca, pantaloni, tunica e/o camicia) e nelle forme fluide e libere. E apertura al dialogo: ai piedi le Birkenstock by VLTN (special edition molto cool in nero e rosso Valentino ) e qua e là gli UFO e i volto di Edgar Allan Poe entrambi nati da una co-creatività con Jun Takahashi di Undercover.
Addirittura eroico l’uomo di Kim Jones per Dior. Esce su di un nastro trasportatore, immobile, resistendo alla tentazione di agire, interloquire. Come una statua, sin troppo perfetto, dettagliato, accessoriato fra completi impeccabili, imbracature alla Matrix, ghette e pullover d’artista a firma Raymond Pettibon.
Virgil Abloh comincia a fare sul serio e cerca anzi ricerca, anche lui, suggerimenti da altri abbigliamenti pur ambientando la sua Louis Vuitton 2.0 in un quartiere underground fine anni Cinquanta di New York, fra band, graffitari, e dove un certo Michael Jackson è cresciuto. La tensione è fra i marciapiedi e le ambizioni, i playground e i lustrini, lo street e il tailoring. Ecco le giacche sartoriali più lunghe e sciolte in viola MJ o i bomber imbottiti, i pantaloni maschili e le camicie ricamate di cristalli, i montoni rovesciati e le tuniche stampa bandiere Usa e Jamaica.
Più contenuta e per questo forse più chiara la personale di Abloh, Off White. Giacca e cravatta, anche qui, sotto la felpa e i nuovi piumini e il Principe di Galles etichettati e poi parka e over jogging pant a tinte accese e notevoli (verde, giallo e arancio). L’universo mondo di Vetements resta lo stesso, trascinato e derelitto, vestito di abiti apparente informi (piumoni felpe, cargo, parka) portatori di pensieri e parole. Anche troppo.