A Sanremo si canta così
L’ascolto dei 24 brani in gara La figura paterna nei pezzi di Turci e Mahmood Migranti, disagi, violenza in famiglia e poco amore Niente rap per Lauro. Rock per il ritorno di Bertè
Claudio Baglioni cade rovinosamente dalla scala di Sanremo. Nessuna gufata. Nessuna metafora. È il primo spot Rai, in onda da ieri, per lanciare l’edizione numero 69. Fra qualche mese saranno poche le canzoni che ricorderemo, il Festival ormai vale l’1,5% del mercato, ma questa edizione quantomeno ha il polso di quello che si ascolta in giro.
Le classifiche sono dominate dalla trap e, sorpresa, Achille Lauro, protagonista della nuova scena, non rappa, limita l’autotune (l’effetto che robotizza la voce) e con «Rolls Royce» spinge sul pedale del rock and roll con chitarroni e citazioni delle icone più o meno maledette come Hendrix, Stones e Doors. Il rap è stato tradito. Briga si concede giusto un paio di barre e ci si domanda perché Patty Pravo abbia scelto lui (e un brano così anonimo come «Un po’ come la vita»). Il rapper non rappa, è anche il caso di Livio Cori (volto di Gomorra) che si scambia di ruolo con Nino D’angelo in salsa autotune. In quota hip hop anche l’eleganza soul di Ghemon («Rose viola») e il duetto adolescenziale, ma con ritornello acchiappa clic, di Shade e Federica Carta («Senza farlo apposta»). Non sono solo i rapper a cambiare pelle: niente ballad per Arisa che in «Mi sento bene» appoggia la sua incantevole voce fra Disney e un balletto della Carrà.
Sanremo non fa più rima con amore. «Argentovivo» di Daniele Silvestri è il flusso di parole di un adolescente che si sente in carcere, ma non sono le sbarre di un riformatorio a ingabbiarlo quanto una prigione mentale: la potenza qui viene dall’aver tolto tutto, tranne batteria e tocchi orchestrali raffinati, il featuring di Rancore e (solo su disco e nella serata duetti) e un onirico Manuel Agnelli. «Dov’è l’italia» è la domanda di un migrante che ha la voce profonda di Motta. Il tema migranti torna. I Negrita si affidano al tocco western di chitarra slide e fischio per «I ragazzi stanno bene»: e chi sarà il «comandante» che fa il «gioco sporco» in un mondo di «fantasmi sulle barche e di barche senza un porto»? Bufera politica in arrivo dopo le parole di Baglioni che avevano irritato Salvini? Per gli Zen Circus «L’amore è una dittatura» ma anche la sola speranza in un mondo che non accetta chi arriva da lontano o è diverso.
«La ragazza con il cuore di latta» di Irama di nome fa Linda, ha un pacemaker ma il vero male è il padre che abusa di lei: il pancione del finale è speranza (ma se fosse incesto?). Ne esce male anche il papà dell’italoegiziano Mahmood, concentrato più sui «Soldi» che sugli affetti: ritmo, profumi mediorientali e la rima champagne-ramadan che lascia il segno. Meglio la figura paterna di Paola Turci, sostegno forte di «L’ultimo ostacolo». Famiglia è anche la dolce attesa a ritmo latin-caraibico dei «Boomdabash» di «Per un milione» e il «Nonno Hollywood» che non c’è più di Enrico Nigiotti, bello spunto che si perde nell’elogio dei luoghi comuni. Il cuore non può mancare. «Mi farò trovare pronto» dice un Nek che spinge a saltare; la malinconia degli Ex-otago ci mostra l’amore solido che si reinventa ogni giorno (anche a letto); Ultimo va alla ricerca di dettagli («la tua voce al mattino che grida bu») per le strofe incisive di «I tuoi particolari» ma nel ritornello concede troppo alla melodia. I ricordi di famiglia e la prospettiva di una nuova lei per il Renga di «Aspetto che torni» non sembrano così a fuoco, ma l’interpretazione dal vivo di Francesco avrà il suo peso. Simone Cristicchi mette teatralità e fragilità in «Abbi cura di me». «Cosa ti aspetti da me» sembra scritta per Vasco ma Gaetano Curreri l’ha affidata a Loredana Bertè. Con «Le nostre anime di notte» Anna Tatangelo parla di crisi (quella con Gigi D’alessio?) senza essere stucchevole. Il Volo rimane nel kitsch dell’opera-pop anche se i suoni di «Musica che resta» sono più moderni. Einar promette di riscrivere l’amore con «Parole nuove», ma non gli riesce.