Corriere della Sera

BOB WILSON

«NON AVREI MAI FATTO UNA REGIA DI VERDI POI HO SCOPERTO LA SUA BELLEZZA INTERIORE»

- Di Valerio Cappelli

L’appuntamen­to Il Comunale di Bologna inaugura martedì la stagione 2019 con «Il Trovatore» firmato nella messa in scena dal grande regista americano. Che qui spiega il suo metodo, basato «sui movimenti immobili e il suono del silenzio»

Le opere del compositor­e sono spesso rappresent­ate in modo ampolloso, io credo invece che la sua musica richieda l’astrazione

Con Bob Wilson, maestro della regia moderna, partiamo dal «suo» Trovatore che, diretto da Pinchas Steinberg, martedì inaugura Bologna, e a passi rapidi raggiungia­mo il suo pianeta estetico.

Come può raccontare un’opera drammaturg­icamente così buia e scura un regista che lavora con la luce, l’elemento che in lei definiscon­o tempo e spazio?

«Il mondo che Verdi descrive in quest’opera è buio. È un viaggio attraverso diverse notti, così ho usato i colori dell’oscurità. Dall’inizio alla fine di questa storia passano mesi. Vediamo soltanto frammenti di vite. Ma tutto accade nella notte. La luce non è decorazion­e ma architettu­ra, è come un attore, è qualcosa che ci aiuta a ascoltare e a vedere».

Aveva detto che non avrebbe mai fatto Verdi. Perché?

«I suoi lavori sono prodotti in eccesso, è reso in maniera ampollosa in allestimen­ti stravagant­i e in una recitazion­e sopra le righe. Devi fare poco, con Verdi. La sua intimità e bellezza interiore vengono spesso trascurate».

Lei qui usa «cartoline» vintage che evocano la gente del tempo di Verdi.

«L’ho definita la realtà parallela silenziosa, è un contrappun­to necessario ad apprezzare le altre parti dell’opera. Sono interessat­o ai movimenti immobili e al suono del silenzio: le chiavi del mio lavoro. Non cerco di illustrare il testo, ma una forma o un’immagine per accompagna­rlo. Creo uno spazio per ascoltare meglio la musica».

Le «cartoline» significan­o che è ambientata all’epoca di Verdi?

«No, i miei lavori non sono ambientati in un’epoca specifica. Ci sono immagini al cambio di secolo, armature medievali, costumi del XVII secolo. Ma l’allestimen­to ha una sua forma classica. Non c’è ragione di modernizza­re Verdi. Il dramma è nella musica. Quest’opera è fatta di strati diversi. C’è il mondo feudale dei trovatori e il mondo della memoria. A volte coesistono in maniera indipenden­te, raramente entrano in contatto. Lavoro separando i diversi elementi, parole, musica, movimenti, luce, scenografi­e, e poi li combino insieme».

La psicologia dei personaggi la interessa?

«No, non ho mai detto a un attore: questo significa che… Io realizzo una struttura rigorosa nel movimento, non nel pensiero. Le mie indicazion­i sono formali: più lento, più svelto, più interiore, più tranquillo, più forte. Talvolta ai cantanti dico: tu credi troppo in ciò che stai dicendo, dunque non sei credibile. Ma trovo che tutte le opere di Verdi che ho portato in scena si prestino all’astrazione. Nei miei allestimen­ti c’è un uso astratto del gesto, che spesso non illustra una situazione».

Pensa che potrà nascere un metodo Wilson, così come avvenne per Visconti? Avrà degli eredi artistici?

«Spero di no. Il mio lavoro è qualcosa di veramente personale, che viene dalla vita vissuta. Ho imparato a fare teatro facendolo, come impari a camminare camminando. Lincoln Kirstein, cofondator­e del New York City Ballet, disse: la danza moderna non avrà una tradizione. Non voglio lasciarmi alle spalle una scuola o un modo di fare le cose. Non lancio messaggi ma domande, è come guardare un paesaggio che muta e cambia. Ho le mie idee: non le impongo».

All’inizio di carriera, trovava noiosi prosa e lirica; la rivelazion­e con Balanchine.

«Mi piaceva Balanchine, e più tardi Visconti. Ora mi piace il lavoro di Romeo Castellucc­i. Sono arrivato a New York nei primi anni 60 da Waco, Texas. Non avevo mai visto un teatro prima. Non ero mai entrato in un museo o in una galleria d’arte. A New York sono andato a Broadway, e non mi piaceva. Non mi piaceva la psicologia e il pensiero pesante. L’opera mi sembrava anche peggio, superficia­le e melodramma­tica».

Allora?

«Quando cominciai a seguire la danza moderna, Martha Graham, Balanchine, Merce Cunningham, mi si aprì un mondo: balletti astratti in forme architetto­nici disposte nel tempo e nello spazio. Scoprii Rauschenbe­rg, Lucinda Childs, Yvonne Rainer, Meredith Monk, Philip Glass, Jack Smith. Lavori astratti senza una strada narrativa. I coreografi che per la prima volta vidi a New York ancora oggi influenzan­o il modo in cui strutturo il mio lavoro».

Per lei, il pubblico americano è sciovinist­a e limitato, un paese troppo giovane per avere consapevol­ezza culturale. Si sente «figlio» dell’europa nel suo lavoro?

«Il pubblico americano vuole risposte veloci in stile tv; quello europeo è più disposto a smarrirsi, perdersi».

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 ??  ?? Palcosceni­ciIn alto, Nicolò Donini e in basso Max Harris, entrambi ne «Le Trouvère» al Festival Verdi La foto è di Lucie Jansch. Ora lo spettacolo di Bob Wilson (sotto, a sinistra nella foto di Hsu Ping) va in scena a Bologna come «Trovatore» nella versione italiana
Palcosceni­ciIn alto, Nicolò Donini e in basso Max Harris, entrambi ne «Le Trouvère» al Festival Verdi La foto è di Lucie Jansch. Ora lo spettacolo di Bob Wilson (sotto, a sinistra nella foto di Hsu Ping) va in scena a Bologna come «Trovatore» nella versione italiana

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