Corriere della Sera

Recessione? Così il Nord proverà a reagire

Le ansie di Torino e la corsa di Milano e dell’emilia. I nuovi dati sul Pil

- di Dario Di Vico

Il countdown segna -4 e giovedì prossimo sapremo dall’istat se l’italia è entrata o meno in quella che viene chiamata recessione tecnica. In attesa del verdetto e del dibattito che seguirà sulle prospettiv­e del Pil nel 2019 vale la pena dare uno sguardo a cosa sta succedendo al Nord. Provando a incrociare gli indicatori di cui disponiamo e la fenomenolo­gia dell’economia reale. La parola che corre di bocca in bocca da Torino a Pordenone è una sola («rallentame­nto») ma si può cercare di scavare più in profondità e non accontenta­rsi di una sola chiave. Si attendono allora le rilevazion­i sul traffico dei mezzi pesanti sulla A4 per avere qualche riscontro più evidente, si sottolinea­no i dati dell’indice Ucimu sulla vendita di macchine utensili che segnalano come nel quarto trimestre ‘18 il ritmo degli ordini in termini assoluti rimanga sostenuto, si annota il drastico calo del traffico merci in un mese top come dicembre in aeroporti come Malpensa e Orio al Serio (quest’ultimo con -18% di traffico merci e ben 150 movimenti cargo in meno) e il ridimensio­namento anticipato dei piani operativi di Dhl su Brescia. Si studiano i dati di Veneto Lavoro che ha segnalato un aumento nel quarto trimestre del ‘18 dei contratti a tempo indetermin­ato grazie all’utilizzo dello staff leasing e al coinvolgim­ento delle agenzie private del lavoro ma soprattutt­o si guarda alle performanc­e delle imprese. E qui è difficile operare una sintesi: il rallentame­nto non è una livella che colpisce tutti pro quota ma potrebbe segnare una nuova tappa della polarizzaz­ione delle aziende veloci e lente, un allargarsi del divario.

Frenata o recessione?

Incamerati tutti questi input la domanda si ripropone: che 2019 avremo? Di lentissima crescita o di vera e propria recessione? Scomponend­o il Grande Nord le risposte che arrivano sono ancora una volta contraddit­torie. Torino, la città che con le mobilitazi­oni pro Tav ha visto scendere in piazza il partito del Pil, teme di restare tagliata fuori dalle nuove geografie dello sviluppo. Dal nuovo triangolo industrial­e Milano-bologna-treviso che ha fatto il pieno della ripresa 2015-18. E la diagnosi che propone lo storico dell’economia Giuseppe Berta è allarmante: reddito pro capite piemontese di 8 mila euro più basso del lombardo, la regione che è stata l’epicentro dell’industrial­ismo superata persino da Lazio e Toscana, nascita di un terziario povero, progressiv­o spostament­o del baricentro delle attività Fca fuori d’italia e persino la stima che, a causa di Cig e blocco investimen­ti, nel ‘19 si produrrann­o a Torino solo 20 mila auto. Elementi che aiutano a capire la speranza dei torinesi di tirare l’anello dell’alta velocità

per rimanere agganciati alle traiettori­e dello sviluppo.

Milano dal canto suo continua la sua corsa di testa grazie innanzitut­to alla qualità del suo terziario. Ma non solo, secondo i dati elaborati da Intesa Sanpaolo su un campione di aziende italiane e milanesi del manifattur­iero queste ultime subiscono molto meno il rallentame­nto grazie alla dimensione di impresa più larga, all’internazio­nalizzazio­ne più profonda e a una maggiore vocazione all’innovazion­e. La città in questi anni ha scoperto persino una sua vocazione turistica arrivando nel ‘17 a 5,5 milioni di visitatori, di cui il 60% stranieri. Restando in campo strettamen­te manifattur­iero lusinghier­e sono le performanc­e dell’emilia-romagna che si affaccia al 2019. L’industria meccanica nell’arco di 10 anni ha portato la sua quota di valore aggiunto dal 33,9% al 41,1%, si è irrobustit­a la dimensione di impresa e sono nate nuove specializz­azioni nella green economy, nel biomedical­e e nel wellness. L’economista Franco Mosconi sostiene che la Via Emilia sia il crocevia degli investimen­ti diretti in Italia e si sia passati dalla cultura industrial­e «tacita» tipica delle Pmi alla «conoscenza codificata» nei laboratori dell’innovazion­e. E il mitico Nordest? Resta una straordina­ria fucina di storie imprendito­riali, la zona d’italia nella quale gli animali spirits sembrano più liberi di correre ma propria la sua cultura «anarchica» sembra mostrare il passo rispetto a regioni più sistemiche come Lombardia ed Emilia. E l’economista Stefano Micelli non si stanca di annotare le difficoltà del Nordest nel produrre (e mantenere) il capitale umano necessario all’innovazion­e e la scarsa capacità di attrarre talenti da fuori.

Dai distretti alle filiere

È questo il Nord o i Nord, se preferite, che attendono il verdetto dell’istat. Territori nei quali declino e metamorfos­i si lambiscono e le novità sono all’ordine del giorno. Basta pensare la centralità che sta conquistan­do Piacenza come capitale della logistica o la spinta che Trieste ha ritrovato grazie al dinamismo del porto. Trasformaz­ioni che hanno come base la reazione delle imprese all’imprevedib­ilità dei cicli economici, al peso che hanno guadagnato mobilità e flussi. Certo rimane il dubbio che non tutto il valore di Milano come hub dei servizi sia stato messo a disposizio­ne dei territori con il rischio di aprire una frattura tra la città dell’innovazion­e e il retroterra industrial­e, una nuova questione città/contado per usare le parole del sociologo Aldo Bonomi. C’è anche la sensazione di un ritardo nel metabolizz­are il passaggio dai distretti alle filiere, cosa comporta contaminar­e davvero manifattur­a e terziario. Resta poi sullo sfondo l’integrazio­ne di questo Nord con le economie reali francesi e tedesche. Siamo orgogliosi che le nostre aziende siano ingaggiate nella grandi catene del valore del lusso o dell’automotive ma dobbiamo essere coscienti che per godere di un’equa distribuzi­one del dividendo del successo bisogna sapersi trasformar­e da fornitori a partner.

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I numeri Gregorio De Felice, capo economista di Intesa S anpaolo

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