Quando Alfredino urlò
La cosa che più mi colpì, quando — per scrivere il libro L’inizio del buio — andai a Vermicino fu che il luogo fosse un fazzoletto di terra. Nei miei ricordi di quelle interminabili ore trascorse davanti al televisore quello spazio era stato capace di contenere il mondo intero. Sembrava enorme, infinito. Lì sopra c’erano centinaia di curiosi, centinaia di giornalisti, centinaia di soccorritori. Era successo di tutto, nei giorni che erano trascorsi dal dieci giugno del 1981 all’undici luglio, quando il corpo di Alfredino Rampi, congelato in un blocco di ghiaccio formato dall’azoto liquido, era stato liberato dalla prigione costituita da un foro nella terra. Largo trenta centimetri, lungo ottanta metri. Alfredino, dopo la caduta, si era fermato a trentasette metri di profondità. Quel buco della terra, come quello nel quale è precipitato Julen Rosello a Totalán, è risultato invincibile, irraggiungibile.
Il mondo di Internet e dell’intelligenza artificiale, della vita clonata e delle auto che vanno da sole, si è arreso, come un gigante inanimato. Leonardo Sciascia mise in relazione la notte in cui tutte le televisioni erano accese per seguire lo sbarco dell’uomo sulla Luna con quelle trascorse per assistere all’agonia di un bambino: «Mi veniva insistente il pensiero che si stava dolorosamente assistendo a una specie di contrappasso, di pena del contrappasso: il trionfo della tecnologia allora; la sua tragica sconfitta ora, davanti al pozzo di Vermicino».
Quando ripenso a quella notte televisiva, per me davvero «l’inizio del buio», mi sembra fosse una scena felliniana.
La televisione aveva trasformato un luogo dove si stava consumando il più inimmaginabile dei dolori umani in una fiera della vanità. La verità era solamente nel dolore composto dei genitori, nella incredibile buona volontà e nel coraggio dei Vigili del fuoco, nella generosità di chi, come il minuto e segaligno Angelo Licheri, si calò in quel buco e riuscì a parlare, toccare, togliere il fango dalla bocca al bimbo che rantolava. Certe volte penso cosa sarebbe oggi in una situazione analoga, quanti non resisterebbero alla tentazione di un selfie, di un
post, di un tweet. Penso a cosa direbbero gli odiatori della rete di fronte alla madre che, come era umano e naturale, mangiò un gelato per alleviare il caldo torrido sotto il quale aveva trascorso decine di ore. Penso quanti esperti di protezione civile direbbero la loro rimbrottando chi, come i vigili, da anni ha studiato come fronteggiare il dolore e le emergenze. Forse il circo Barnum che calpestò il prato incolto di Vermicino oggi si esibirebbe nel grande infinito della rete.
Quando scrissi il libro ascoltai ad uno ad uno i protanando, gonisti di quella vicenda e trovai intatto il loro dolore. Molti piansero, come Tullio Bernabei o Maurizio Monteleone, speleologi abituati a cercare il ventre della terra, o come il vigile incaricato di parlare con il bimbo che mi disse: «Non riesco a liberarmi da quel pianto, da quelle urla. Gli ho raccontato dei vigili, delle loro macchine potenti, ho cercato di fargli passare la paura del rumore, che lo faceva impazzire, dicendogli che stava per arrivare Mazinga, avevo saputo che era il suo eroe preferito». Anche io, nel rievocare quella storia, ho faticato a liberarmi da quella voce che avevo dovuto riascoltare. Quella voce che veniva dal freddo e dal buio, luoghi che i bambini dovrebbero conoscere solo nelle storie impossibili. Alfredo che per otto volte chiama la mamma, con un dolore che nasce dalla solitudine, dalla paura, dall’oscurità, dal gelo, dal dolore. Quel grido è rimasto nelle orecchie di chi lo ha ascoltato. Non cercatelo su internet. È stata, giustamente, vietata la sua diffusione in rete. Anche la cognizione del dolore ha un limite. Ma Alfredino a un certo punto ha gridato un’altra cosa. Ha gridato forte «La vogliamo piantare?». Lui, rannicchiato con le gambe strette al petto, caduto come Alice nel buco della terra, ferito, stordito, impaurito capisce che sopra di lui c’è troppa confusione. Si fida solo di Nando, della madre. Uno gli ha annunciato che arriverà il suo eroe, l’altra è il suo eroe.
Il resto è rumore, confusione. «La vogliamo piantare» è la frase che un genitore grida a un bambino irrequieto. Ora è lui, l’essere umano più indifeso della terra, a farsi adulto, a rimproverare la gran cagnara che sente sulla sua testa. Lui è il grande, gli altri sono bambini. Alfredino con la vita aveva combattuto fin da piccolo, quando gli era stata diagnosticata la tetralogia di Fallot, una malattia che colpisce tre persone ogni diecimila nati vivi. La sfortuna si accanisce con spietatezza su certe famiglie. Quando andai a casa di Nando e Franca Rampi, che con la loro fondazione fanno oggi un lavoro straordinario per la sicurezza dei bambini, lei mi aprì una scatola in cui c’erano le foto dei suoi figli. Concordammo che nel libro ne pubblicassi una, alla quale teneva molto, che ritraeva i suoi due ragazzi abbracciati: Alfredo che proteggeva il suo fratello minore Riccardo. Anche in questo le famiglie Rosello e Rampi sembrano legate da un’ incredibile comunità di destino. Per i due genitori spagnoli la morte assurda e tragica di Julen è un dolore che si aggiunge alla perdita di un fratellino, solo due anni fa, stroncato da infarto su una spiaggia. Allo stesso modo con il cuore crepato dal dolore, se ne è andato, quattro anni fa, il fratello di Alfredino. Se i loro figli sono stati soli, nella terra cattiva, sia per loro di conforto, alla luce del sole, l’affetto di chi, in ogni parte del mondo, non ha rinunciato a una parola facile da dimenticare: umanità.
Quello spazio era stato capace di contenere il mondo intero. Lì sopra c’erano centinaia di curiosi, giornalisti, soccorritori
La tv aveva trasformato un luogo dove si stava consumando il più inimmaginabile dei dolori umani in una fiera della vanità
Ma Alfredino a un certo punto ha gridato forte: «La vogliamo piantare?». Lui caduto come Alice nel buco della terra capisce che c’è troppa confusione
I genitori
La famiglia Rampi fa oggi un lavoro straordinario per la sicurezza dei bambini