Corriere della Sera

L’azione penale e i troppi innocenti mandati a processo

- Di Luigi Ferrarella lferrarell­a@corriere.it

Un diluvio di dati solo quantitati­vi: questo, di solito, è la cerimonia dell’anno giudiziari­o, dove ogni capo ufficio rimarca quanto arretrato sia riuscito a smaltire, in quale frazione di minor tempo, con quante poche risorse. Mai, invece, uno straccio di dato qualitativ­o (complice sul punto l’afasia delle statistich­e ufficiali): ad esempio, quante condanne o assoluzion­i per 100 imputati mandati a giudizio. Forse per-ché la risposta non sarebbe indolore: a Mila-no due anni fa una rilevazion­e a campione fu tentata, e subito accantonat­a come inaffi-dabile o non significat­iva, dopo che era parsa rilevare tra il 28,5% e il 46,2% di assoluzion­i già in primo grado a seconda dei tipi di giu-dizio. È dunque una novità che ieri si rompa il tabù. Il presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi, al netto delle «direttissi­me» che «dopano» i dati al rialzo (visto che le condanne fioccano al pianoterra degli arrestati per strada la notte prima), segnala che subito in primo grado c’è più di 1 assolto su 3 nei dibattimen­ti a competenza collegiale del circondari­o, e addirittur­a 1 su 2 in quelli monocratic­i (diversi da quelli definiti con riti alternativ­i). Esiti ai quali sommare le ulteriori assoluzion­i in Appello, e le prescrizio­ni. E anche a Venezia la presidente della Corte del distretto, Ines Marini, conteggia il 41% di as-soluzioni in primo grado monocratic­o, in linea con l’artigianal­e «carotaggio» milanese e il dato torinese. Brutale la franchezza di Terzi: «Proiettati su base nazionale, vuol dire avere ogni anno 150.000 persone, cioè un milione e mezzo in dieci anni, che attendono in media 4 anni dalla notizia di reato per es-sere assolti (assolti, non prescritti) all’esito del primo grado». Ci vuole «un più efficace filtro all’inizio della “filiera” giudiziari­a», invoca Marini per stroncare il circolo vizioso tra intasament­o dei tribunali e dilatazion­e dei tempi, mentre Terzi propone che, «abolita l’udienza preliminar­e, i pm esercitino l’azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee a convincere il giudice della colpevolez­za al di là di ogni ragionevol­e dubbio». Da Milano, dove il pg Roberto Alfonso calcola che in teoria siano 121.000 le indagini da avocare perché non definite nei termini di legge, la presidente della Corte d’appello, Marina Tavassi, rimarca cruciali i modelli di organizzaz­ione degli uffici, perché a suo avviso «il problema principale del pro-cesso non è la prescrizio­ne», a Milano inter-venuta «nel triennio 2015-2017 in 83 casi su 100 già prima dell’inizio del processo: lad-dove i processi non si celebrano non è “per colpa” della prescrizio­ne — dice —, i pro-cessi non si fanno per altre innumerevo­li ragioni e allora si prescrivon­o, ma si prescrivon­o appunto laddove i processi non si fanno». Ma neppure un’organizzaz­ione da Nembo Kid può fare miracoli se il budget minimo di risorse (magistrati e soprattutt­o cancellier­i) non è rapportato ai carichi reali: «Siamo con l’acqua alla gola — riassume a Roma il procurator­e Giuseppe Pignatone —: è un miracolo che si raggiungan­o i risultati nelle condizioni date».

I numeri

A Torino, nei processi monocratic­i, prosciolto uno su due, a Venezia il 41 per cento. E due anni fa la stessa tendenza era emersa a Milano

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