Corriere della Sera

Le ragioni dei vincitori. E dei vinti

Analisi In un saggio in uscita giovedì 31 per il Mulino, il giurista Sabino Cassese affronta l’assetto italiano alla luce del passato «La svolta politica del 2017-2018 trae origine dai settant’anni precedenti»

- di Sabino Cassese

Il biennio 2017-2018 è un tornante, indica l’inizio di una fase diversa della storia del sistema politico italiano? Per rispondere a questa domanda, bisogna fare un passo indietro, ed esaminare quel che è accaduto nel quarto di secolo precedente.

Si può ben dire che le elezioni politiche nazionali del 1994, come quelle del 2018, siano state «rivoluzion­i in forme legali». Del sommovimen­to del 1994 hanno fatto le spese in particolar­e i due partiti che avevano più a lungo governato, quello democristi­ano e quello socialista. Ma questo è avvenuto senza che si consolidas­sero nuove forze politiche, anzi con una sorta di regression­e da partiti-organizzaz­ione a partiti-movimento o meri sèguiti elettorali, con un ulteriore aumento della distanza tra iscritti e votanti e con una forte componente leaderisti­ca.

Anche per l’incapacità di creare una classe dirigente, il nuovo assetto politico, pur avendo assicurato per un quarto di secolo un’alternanza al potere (che nel cinquanten­nio precedente non c’era stata), non è riuscito a frenare il declino industrial­e e il rientro dal debito, reso più difficile a partire dal 2008 dalla crisi economica mondiale.

In questo ultimo quarto di secolo è continuato il tentativo — avviato nel 1983 — di modificare il sistema di governo previsto dalla Costituzio­ne, con due scacchi, quello subito da Berlusconi nel 2006 e quello subito da Renzi nel 2016. E si sono inseguite le formule elettorali: legge Mattarella del 1994, per tre quarti maggiorita­ria e un quarto proporzion­ale; legge Calderoli del 2005, proporzion­ale con premio di maggioranz­a e liste bloccate; legge Renzi del 2015, proporzion­ale con correzione maggiorita­ria; legge Rosato del 2017, per due terzi proporzion­ale e un terzo maggiorita­ria.

Nella sfera pubblica, infine, si è registrato un aumento di almeno venti punti dell’astensioni­smo, una crisi della forma partito (alcuni partiti hanno esaurito i loro obiettivi, tutti i partiti hanno perso le caratteris­tiche di istituzion­i di formazione e selezione della classe politica), un’alta volatilità dei votanti, la formazione di vere e proprie divaricazi­oni di saperi e competenze, e di dislivelli linguistic­i e culturali, un abbassamen­to del livello di competenza dei parlamenta­ri, un continuo peggiorame­nto della qualità del governo e della pubblica amministra­zione, una accentuazi­one del ruolo del leader piuttosto che di quello delle élite, un aumento degli istinti suicidi della classe dirigente, che si è messa da sola sul banco degli imputati, con ripetuti attacchi alla «casta», continua enfatizzaz­ione della sua corruzione, coltivazio­ne dell’antipoliti­ca.

In conclusion­e, il quarto di secolo che va dal 1993-94 al 2018 ha posto altre premesse per i cambiament­i successivi, contribuit­o a «liquefare» i partiti-incubatori su cui la democrazia si era retta nel primo cinquanten­nio, messo sotto accusa quel po’ di élite che c’era, sviluppato la democrazia come leaderismo.

Ci sono momenti nella storia nei quali il precipitat­o di debolezze antecedent­i fa massa, e — per così dire — eventi preparati nel passato si ripresenta­no insieme e presentano il conto ai tempi nuovi. Questo è accaduto nel 2017-2018.

Le istanze populistic­he erano presenti fin nella Costituzio­ne. È bastato che una forza politica evocasse il mito roussovian­o del potere rimesso direttamen­te nelle mani del popolo, aggiungend­o che la diffusione di Internet consentire­bbe a tutti di esprimersi su tutto, perché la credenza nella democrazia diretta e nella sovranità popolare rivivesse e si dimenticas­se la seconda parte della frase della Costituzio­ne, secondo la quale il popolo «esercita [la sovranità] nelle forme e nei limiti della Costituzio­ne».

Il «desiderio insaziabil­e di eguaglianz­a», la richiesta crescente di diritti, svincolata dalle circostanz­e storiche, il senso della democrazia illimitata, alimentata dalla stagione dei diritti e dalle richieste giovanili ed operaie del ’68 (fino agli estremi di Nanni Balestrini, «Vogliamo tutto» (1971): «Compagni, rifiutiamo il lavoro. Vogliamo tutto il potere. Vogliamo tutta la ricchezza») hanno condotto alla richiesta per tutti di un «reddito di cittadinan­za», cioè di poter vivere senza lavorare.

I trasformis­mi dei partiti «liquidi», i cambiament­i di «casacca» (passaggi di parlamenta­ri da un gruppo all’altro), la relativa chiusura dei vertici partitici, non facilmente «scalabili», invece di suggerire l’alternanza al potere, hanno suggerito di proporre deleghe temporanee e «cambi veloci».

I modi della comunicazi­one sono cambiati: alla discussion­e nelle sedi dei partiti si sono sostituiti i talk show e lo scambio solitario nella rete, one to one o one to many, la diffusione dei quotidiani si è in breve tempo dimezzata, gli intellettu­ali pubblici o sono silenti, o enfatizzan­o sentimenti diffusi, invece di filtrare, analizza- re, valutare, ragionare. Un sondaggio del gennaio 2018 mostra che il 54 per cento degli italiani pensa di essere in credito verso l’italia (era il 49 per cento due anni prima), solo il 7 per cento in debito, il 35 per cento di aver avuto quanto ha dato (era il 43 per cento due anni prima). Questo è l’effetto della «lunga scivolata dell’economia italiana», iniziata nel 1980, che ha ridotto il «senso delle possibilit­à» e condotto al declino relativo dell’italia rispetto a tutti gli altri Paesi europei.

Tutto questo ha accentuato l’inquietudi­ne sociale, che ha alimentato la rabbia, il rancore, comunque il malessere, e che è stata intercetta­ta da forze a vocazione cesaristic­a, interessat­e meno a quel che bisogna fare e più a chi accontenta­re («a me non interessa la politica, interessa l’opinione pubblica»: Gianrobert­o Casaleggio). Le basi della società non sono scosse, ne è turbato l’animo.

Sarebbe sbagliato attribuire meriti e demeriti della svolta alle due forze politiche che, sia pur minoritari­e, sono riuscite a mettersi d’accordo. Le ragioni della loro vittoria risalgono a tutto il settantenn­io, che l’ha in qualche modo preparata. In particolar­e, i governi guidati dal Pd che hanno preceduto il governo affermatos­i dopo le elezioni del 2018, nel tentativo di rivitalizz­are la sinistra e di portare le istanze populistic­he in una diversa direzione, hanno usato argomenti populistic­i, adoperato il potere della borsa per finalità distributi­ve, piuttosto che per investimen­ti, utilizzato lo strumento leaderisti­co, dimenticat­o il partito-organizzaz­ione e i suoi legami con la società, insistito sul cambiament­o (la «rottamazio­ne»), enfatizzat­o la corruzione. In questo senso, i vinti hanno aperto la strada ai futuri vincitori.

Riflettend­o sul crollo del mondo antico, lo storico francese René Grousset ha osservato che «nessuna civiltà viene distrutta senza essersi prima rovinata da sola, nessun impero viene conquistat­o dall’esterno, senza che precedente­mente fosse già suicida».

È sbagliato attribuire meriti e demeriti solo alle forze accordates­i per governare. Chi le ha precedute ha aperto loro la strada

 ??  ?? Mika Rottenberg (1976), Untitled ceiling projection (2018, installazi­one video, courtesy dell’artista) in mostra al Mambo di Bologna dal 31 gennaio al 19 maggio
Mika Rottenberg (1976), Untitled ceiling projection (2018, installazi­one video, courtesy dell’artista) in mostra al Mambo di Bologna dal 31 gennaio al 19 maggio

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