«sdoganate» Ma è davvero un bene?
I negozi di abbigliamento si sono adeguati ai bisogni di una quota sempre maggiore di popolazione, con il rischio di normalizzare un problema di salute
Percezioni
Le mamme e i figli in sovrappeso tendono a vedersi meno cicciottelli di quel che sono. Lo dice uno studio Usa secondo cui oltre l’80 per cento ritiene di avere meno chili di troppo di quanti ne abbia in realtà. Succede anche in Italia: in molte famiglie i bambini sovrappeso sono solo considerati «paffutelli». Il risultato è sotto gli occhi di tutti: negli ultimi quarant’anni il numero dei piccoli con problemi di peso è triplicato: ora sono uno su tre alle domande dei lettori su diete e alimentazione all’indirizzo
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Le taglie forti sono state sdoganate. Non solo negli Stati Uniti, dove i negozi d’abbigliamento oversize si trovano un po’ dappertutto: anche nel nostro Paese gli obesi sono in crescita, così non è più strano imbattersi in abiti extra-extra-extralarge.
L’intento è stato lodevole perché venire incontro ai bisogni di una fetta sempre più ampia di popolazione ha significato anche ridurre lo stigma verso corpi che non sottostanno ai canoni classici dettati dalla moda e aiutare tanti a sentirsi meglio con se stessi senza costringerli ad andare in giro sotto camicioni informi.
Ora, però, una ricerca dell’università dell’east Anglia, nel Regno Unito, sottolinea che la normalizzazione delle taglie forti ha portato con sé anche un «effetto collaterale» imprevisto, tale da compromettere la lotta ai chili di troppo che, è bene non dimenticarlo, sono una minaccia per la salute (quando si esce dalla fascia definita normopeso): un conto insomma è essere «curvy», ben altro è avere decine di chili in eccesso.
I ricercatori inglesi, che hanno pubblicato i loro risultati su Obesity, hanno raccolto i dati su quasi 24mila persone in sovrappeso od obese e segnalano che la percentuale di chi sottostima l’entità della propria mole è in preoccupante crescita: oggi il 58 per cento degli uomini in sovrappeso è convinto di non esserlo, nel 1997 la percentuale era ferma al 48; fra le donne, la quota di chi non ha una reale consapevolezza dei chili di troppo è passata dal 24 al 31 per cento. E fra gli obesi il numero di chi ritiene tutto sommato «normale» quel che dice la bilancia è raddoppiato, passando dal 6 al 12 per cento in vent’anni.
Il corollario al sentirsi «in forma» pur essendo una taglia forte? Per esempio, il fatto che solo una persona in sovrappeso su due stia tentando di dimagrire. «Eppure — ricorda Ferruccio Santini, presidente eletto della Società Italiana dell’obesità e direttore del Centro Obesità-endocrinologia 1 dell’azienda Ospedaliero-universitaria di Pisa —, la “normalità del peso” è stata definita calcolando l’intervallo in cui il rischio di mortalità è più basso: chi è “normopeso”, ovvero ha un indice di massa corporea compreso fra 18 e 25 (è il rapporto fra peso in chili e quadrato dell’altezza in metri, ndr), ha un’aspettativa di vita superiore a chi è sotto o sovrappeso. Essere obesi, poi, significa avere una drastica riduzione della qualità di vita e della salute».
Molti non l’hanno ancora capito, ma l’obesità è una vera e propria malattia: altera le funzioni metaboliche interferendo con insulina e altri ormoni e produce un’infiammazione cronica generalizzata che facilita la comparsa di altre patologie (diabete, malattie cardiovascolari, tumori). Tanto che un obeso vive dieci anni di meno e passa dieci anni in più in peggiori condizioni di salute, dovute a disabilità da chili in eccesso.
Quindi, rendersi conto di avere un problema con la bilancia e provare a risolverlo è necessario innanzitutto per stare bene, ma secondo gli inglesi, grazie alla normalizzazione delle taglie forti, ciò accadrà sempre meno.
L’errata percezione del peso non è un problema soltanto oltremanica, perché stando ai dati della «Sorveglianza Passi» del Ministero della Salute raccolti fra il 2010 e il 2013, un italiano in sovrappeso su due si ritiene soltanto «robusto», così come il 10 per cento degli obesi. Sono le italiane ad avere un’idea più realistica di sé: solo il 35 per cento delle sovrappeso si ritiene nulla più che «formosa». «In Italia le persone obese o in sovrappeso sono oltre il 50 per cento: se la maggioranza è oversize, inevitabilmente l’idea che abbiamo di normalità si modifica e penseremo che sia del tutto ragionevole essere “tondi” — fa notare Santini —. Come segnalano anche i ricercatori inglesi, il problema è più evidente fra le fasce sociali svantaggiate, che spesso ignorano le problematiche legate all’obesità e hanno difficoltà ad adottare uno stile di vita sano, a causa, ad esempio, del maggior costo dei cibi salutari. Anche nel nostro Paese esistono palesi differenze socioeconomiche e territoriali: al Sud e nelle Isole la quota di persone sovrappeso od obese è molto più alta rispetto al Nord. Di fatto, poi, vige una sorta di paradosso: la norma percepita è il sovrappeso, perché tanti hanno chili di troppo, ma l’ideale di moltissimi è la magrezza estrema». Ci siamo persi di vista la normalità insomma, che è ciò a cui dovremmo puntare. Di certo occorre anche trovare una terza via fra sentirci «a posto» ma essere grassi (visto che essere troppo pesanti fa male alla salute e va combattuto) o al contrario disprezzare chi è obeso, visto che questo stigma sociale crea sofferenze enormi.
Come se ne esce? «Chi è in sovrappeso od obeso non va colpevolizzato, perché spesso anche la genetica rema contro rendendo più probabile l’accumulo di grasso. Abbiamo un’arma in più, però, perché a differenza di altri tratti, come l’altezza o il colore dei capelli, sul peso si può incidere con lo stile di vita — osserva Santini —. Chi lotta contro i chili di 11% 9,3% 21,3% 45% (8-9 anni)
L’allarme
Un obeso in media vive 10 anni di meno e passa 10 anni in più in cattive condizioni
troppo deve rendersi conto che questi sono un problema, ma non è una colpa averli, va perciò responsabilizzato ad agire per la propria salute, a capire che è sempre possibile fare qualcosa. L’obiettivo deve essere soprattutto un cambio nello stile di vita, che aiuta nel dimagrimento e a recuperare in salute. Servono programmi ben strutturati e non basta consigliare una dieta».