Se il paziente è più coinvolto l’assistenza sanitaria migliora
Il diabetologo statunitense Victor Montori lancia la «rivoluzione gentile»
Ssecondo una definizione dell’organizzazione mondiale della sanità, l’empowerment del paziente è quel processo attraverso il quale le persone possono acquisire un maggiore controllo sulle decisioni e sulle azioni che riguardano la loro salute (si veda il grafico). L’oms sottolinea, inoltre, come il concetto di empowerment sia di fondamentale importanza per quanto riguarda le malattie croniche che rappresentano ormai la vera sfida per i sistemi sanitari.
Come dimostrano gli oltre diecimila articoli scientifici pubblicati sull’argomento, l’interesse verso il coinvolgimento attivo e responsabile dei pazienti è cresciuto vertiginosamente negli ultimi anni, arrivando a essere riconosciuto come un imperativo etico e pragmatico per i sistemi sanitari occidentali.
Eppure dopo un decennio di attenta osservazione dei sistemi sanitari, soprattutto di quello statunitense, Victor Montori, diabetologo della prestigiosa Mayo Clinic, è convinto che l’empowerment non basti più. A suo dire, la medicina ha corrotto la sua missione di cura e si è concentrata sul successo negli obiettivi industriali e commerciali. «Questo è stato crudele nei confronti dei pazienti e duro per i medici», dice.
Il rimedio? Una «rivoluzione» che ha sempre il paziente al centro.
Attenzione: Montori non incita alla violenza. Anzi. Sostiene il principio di una rivoluzione pacifica, fatta di rispetto e solidarietà, di conversazioni pacate e di cura attenta e premurosa. Il 31 gennaio prossimo, il diabetologo ne parlerà a Roma nella terza edizione di «4Words – Le parole dell’innovazione in sanità» (si veda box in alto) dove presenterà il libro «Perché ci ribelliamo» («Why we revolt», in inglese) in cui ha condensato il suo pensiero. L’autore ha accettato di parlarne con il Corriere. «Dottor Montori, perché una rivoluzione?»
«La parola rivoluzione imsono plica il concetto di svolta. Ho pensato che dovevamo voltare le spalle a un’assistenza sanitaria ormai industrializzata e attenta agli affari, in direzione di una cura del paziente attenta e gentile. Questa rivoluzione, questo allontanamento,
necessari se vogliamo che l’assistenza sanitaria si occupi davvero di far progredire l’umanità di fronte alle minacce per la salute, molte delle quali sono ormai malattie croniche che non riusciamo a risolvere». E la classe medica ?
«Da qualche parte alcuni medici hanno provato a fare cambiamenti, ma qualcosa li ferma. Molte persone dipendono dal sistema per il loro lavoro, lo sviluppo professionale o per la loro salute. Quando ho parlato di questi problemi in stanze piene di colleghi, in generale ho ottenuto in generale una condivisione della mia analisi. Da parte loro, però, non ho registrato indignazione o senso di colpa per la situazione quanto piuttosto una certa opinione diffusa che non si possa fare nulla per cambiare le cose. I medici parevano impotenti». I pazienti invece?
«Di fronte a una situazione del genere, mi sembra che la migliore speranza possa arrivare da un’azione collettiva, dall’azione delle persone che, come pazienti - cioè come coloro la cui sofferenza motiva il bisogno di un sistema sanitario, sofferenza a cui il sistema deve rispondere correttamente -, potrebbero mobilitarsi per una cura effettivamente attenta e gentile». Qual è allora l’antidoto per «curare» la sanità?
«Io credo nell’amore. Può sembrare banale, ma credo davvero che il segreto della medicina, dell’assistenza sanitaria, sia l’amore. Dobbiamo prenderci cura l’uno dell’altro. Il fatto che il profitto sembri più accettabile dell’amore quando si parla di assistenza sanitaria, dimostra quanto ci siamo allontanati da un’assistenza del paziente attenta e gentile».