Corriere della Sera

Il caso Signorini e le risse continue

Giorgetti e le tensioni con Conte: se scoppia la rivoluzion­e si va avanti per tentativi?

- di Francesco Verderami

Quanto può durare un governo che deve ancora leggere le carte sulla Tav, sull’autonomia regionale, sulle sorti processual­i di un suo vice premier, e che non sa nemmeno organizzar­e i lavori di un Consiglio dei ministri?

La distanza politica nella coalizione giallo-verde si misura con gli epiteti. L’inadeguate­zza dell’esecutivo si misura invece con il pressappoc­hismo, evidenziat­o dal fermo immagine del ministro dell’economia, che la notte scorsa — al termine di una burrascosa riunione a Palazzo Chigi — ha urlato ai colleghi grillini: «Voi siete dei pazzi». Perché può accadere che un partito di maggioranz­a ponga il veto su una nomina, ma bloccare il rinnovo di un vice direttore generale di Bankitalia in scadenza senza avere neppure l’idea di un sostituto è il colmo.

E poco importa ricostruir­e le ragioni che hanno indotto Di Maio a dire «no» a Signorini, se è vero cioè che il capo dei grillini abbia voluto punirlo perché colpevole di lesa maestà verso i provvedime­nti dei Cinquestel­le. È il dato politico che colpisce, sta nel siparietto che ha seguito la querelle tra il vice premier e Tria, quando Conte — stranito per la situazione — ha tentato di far da paciere sorridendo: «Siamo qui per cambiare le cose, e per cambiare a volte si va per tentativi». Giorgetti, senza sorridere, ha replicato: «Ah sì? E se scoppia la rivoluzion­e, che facciamo: andiamo avanti per tentativi?».

Non bastassero la gestione della crisi venezuelan­a e la rottura diplomatic­a con la Francia, anche questo dialogo smentisce quanto il premier sussurrò alla Merkel: non c’è «mediatore» che possa tenere insieme una coalizione nata per contratto, non c’è spazio per i compromess­i se i contraenti non tentano nemmeno di dissimular­e le loro divergenze. Lo fanno capire in pubblico e in privato, al punto che un ministro leghista l’altra sera, stremato dal lungo e surreale battibecco, ha imbracciat­o le carte e ha commentato: «Sarebbe da matti restare con questi matti fino alla prossima Finanziari­a».

È un’opinione diffusa nella delegazion­e del Carroccio, che pure attende ordini dal suo «Capitano», infastidit­o ogni qualvolta sente dire all’altro vice premier che «per il voto al Senato su Salvini il Movimento deciderà dopo la lettura delle carte». Come se le «carte» non le avesse prodotdio te il governo nella sua collegiali­tà con la «linea dura» decisa sui migranti. Per ora si trattiene. All’esercizio zen è abituata anche il ministro Stefani, che a una settimana dall’«ora X» sull’autonomia regionale, invita i colleghi grillini a produrre i documenti e cerca di spiegarsi: «Guardate che i nostri governator­i altrimenti non ci stanno...». Per la Lega l’affronto equivarreb­be all’autorizzaz­ione a procedere contro Salvini.

Proseguend­o nella tattica dei distinguo, prosegue lo scontro sulla Tav, che si arricchisc­e di un altro pissi-pissi di Palazzo: l’analisi sui costi-benefici sarebbe una foglia di fico, perché il vero problema non verterebbe tanto sull’utilità commercial­e dell’opera, bensì sulla potenziale importanza strategica a livello militare della galleria. Altrimenti non si spieghereb­be l’attenzione con cui gli alleati europei e anche quelli oltre oceano seguono il dossier. I misteri e i retropensi­eri alimentano i reciproci sospetti in un’alleanza dove l’imperativo è marcare l’alleato. Il punto è che la spinta propulsiva del gabinetto Conte si è esaurita, «e l’ad- di Savona — dice un ministro leghista — lo testimonia: la carica rivoluzion­aria finisce ogni sera quando finiscono i tiggì».

Eppure nei sondaggi l’esecutivo tiene, mentre continua a calare il gradimento sui suoi provvedime­nti. Può sembrare una contraddiz­ione ma non lo è, se si tiene conto che dalle analisi di ricerca emerge come l’opinione pubblica non trovi oggi un’alternativ­a di governo valida: esiste insomma una «domanda» che non troverebbe però un’«offerta». E allora si capisce perché i leghisti vorrebbero staccarsi da M5S prima della prossima Finanziari­a, che dovrà gestire quello che gli economisti già chiamano «Inferno Duemilaven­ti». Il Carroccio non intende sacrificar­e il futuro risultato europeo sull’altare del governo Conte: se manovra lacrime e sangue sarà, meglio gestirla da Palazzo Chigi dopo un voto popolare. Certo non è facile, ma questo è l’obiettivo: così Salvini giocherebb­e d’anticipo, impedendo che si costruisca un’«offerta» per quella «domanda».

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