Corriere della Sera

Vincenzo Mollica L’inviato del Tg1 ha disturbi visivi dall’età di 7 anni «E ora anche il Parkinson. Io troppo buono? Evito chi non mi piace»

- Di Stefano Lorenzetto

O ltre a essere buono come il pane, Vincenzo Mollica fa onore al suo cognome: è tenero quanto la parte più interna della baguette. Una pasta d’uomo. Al critico televisivo Aldo Grasso ha ispirato un neologismo: mollichism­o. Il nuovo album di Giorgia? «Voce meraviglio­sa», «risultato splendido». Quello di Roberto Vecchioni? «Un vero capolavoro», «un bell’esempio», «un disco sorprenden­te». Lady Gaga alla Mostra del cinema di Venezia? «Acclamatis­sima, una delle star più attese, un concentrat­o di arte, eccentrici­tà e grande senso della comunicazi­one».

Per l’inviato del Tg1 i divi sono tutti superlativ­i, insuperabi­li. Ma ciò non dipende dal fatto che negli ultimi cinque anni un glaucoma gli ha mangiato il 95 per cento del nervo ottico: in loro non scorge difetti perché li ha sempre guardati con un occhio solo, il destro, lo stesso che ora lo sta tradendo. «Dal sinistro», rivela, «non ci ho mai visto, a causa di un’uveite che mi colpì da piccolo, seguita da un’iridocicli­te plastica. Lo so, sembra una sciarada, però si chiama così».

L’aedo di cantanti e attori ride con invidiabil­e leggerezza delle proprie disgrazie. «Le mani che tremano? Quello è il morbo di Parkinson. Non mi faccio mancare nulla. Ho pure il diabete. Sono un abile orchestrat­ore di medicinali». Nonostante la cecità quasi completa, insiste per venire ad accoglierm­i nel corridoio di Saxa Rubra e mi fa strada a tentoni fino al suo ufficetto semibuio. Sulla porta, un fotomontag­gio: lui vestito da papa, benedicent­e, con il logo del Tg1 al posto della croce pettorale e la scritta «Sua Santità il signor Presidente».

Perché la chiamano così?

«Quando si eleggeva il Cdr, il ruolo di presidente della commission­e di voto toccava sempre a me o a Massimo Valentini. Ci considerav­ano privi di padrini politici. Che signore, Massimo. È morto qui dentro, sul lavoro. Infarto. Alla fine di ogni edizione delle 20, bussava alla porta e mi salutava così: “Presidente, si cagorno!”. Tutte le sere. Non ho mai saputo che volesse dire».

I problemi di vista sono correlati alla sua ben nota indulgenza?

«Cerco solo il lato migliore delle persone. Non da pirata, con la benda sull’ultimo occhio che mi rimane. Da cronista. Evito di avvicinare chi non mi piace».

In questo momento che cosa vede?

«Ombre in un mare di nebbia. Più spesso non vedo un tubo, ma continuo a coltivare la speranza. Andrea Camilleri mi ha spronato a non abbattermi, a sviluppare gli altri sensi. Ignoro che cosa sia la depression­e. Mi sostengono due pilastri: famiglia e lavoro. Nella vita non ho altro. Mai messo piede nei salotti. Prima scrivevo, leggevo, disegnavo. Ora mi tocca andare a braccio. Il mio nuovo libro, Scritto a mano pensato a piedi, s’intitola così perché sono aforismi che ho dettato a Siri».

Ne ho contati 62, di libri suoi. Tre in più di Bruno Vespa.

«Lo sa che non lo so?».

Uno, «Mi ritiro dai miracoli», tirato in sole 100 copie da un editore amanuense di Milano, Giuseppe D’ambrosio Angelillo, che i libri li componeva da solo con calligrafi­a ornata, disegnando anche le copertine e vendendoli per strada.

«È morto un anno fa, Giuseppone, lasciando moglie e cinque figli. Lo conobbi a casa di Alda Merini. La poetessa, ormai incapace di reggere la penna, gli recitava al telefono le poesie che le sgorgavano dal cuore e lui le trascrivev­a».

È dura ridursi a sfornare solo rime?

«Omerico non fui per poesia ma per mancanza di diottria».

Bella.

«Sì, è dura. Ma alla fine, mi creda, ci si arrangia. E gli aforismi diventano il compendio della tua esistenza, alla maniera di Paolo Conte: “Come la lucertola è il riassunto del coccodrill­o, così il tango può essere il riassunto di un’intera vita”».

Dovrebbe dettare le sue memorie.

«Me lo hanno chiesto molti editori. Prima che mi dimentichi tutto, lo farò. Sarà un libro di pagine bianche».

In che senso?

«Non parlerò mai di Federico Fellini, di Fabrizio De André, di Hugo Pratt, dei tanti che mi hanno donato la loro amicizia. Questa è la mia prima intervista a un giornale, e sarà anche l’ultima. Ho ceduto solo perché, dal tono della sua voce, ho sentito che potevo fidarmi».

La cecità incipiente come si annunciò?

«Se ne accorse la mamma. I miei genitori mi portarono da un oculista in Calabria. Avrò avuto 7-8 anni. Origliai la sentenza da dietro la porta: “Diventerà cieco”. Da quel momento adottai una tecnica: imparare a memoria tutto quello che mi circondava, in modo da ricordarme­ne quando sarebbero calate le tenebre. Come mi ha detto Andrea Bocelli, abbiamo avuto la vista lunga».

Con la sua patologia oftalmica, non dovrebbe essere già in pensione?

«Per carità! La Rai mi ha comunicato che resterò fino al 27 gennaio 2020. Ogni giorno mia moglie Rosa Maria mi porta qui alle 9 e viene a prendermi alle 19».

Come fu assunto?

«Dal 1977 lavoravo a Tele Amiata, emittente di Montepulci­ano. Nuccio Fava e Albino Longhi, l’unico ad aver guidato per tre volte il Tg1, mi segnalaron­o a Emilio Rossi, il primo direttore, gambizzato dalle Brigate rosse. Mi convocò per un colloquio. Aveva idee futuribili sulla tv. Mi assunse il 25 febbraio 1980. Due giorni dopo prese Enrico Mentana».

Enzo Biagi la volle a «Linea diretta».

«Unico requisito: la mia giovane età. Quello che so, lo devo a lui. Era uno specialist­a nell’insegnarti senza insegnare. Il primo incarico fu intervista­re Paulette Goddard. Mi diede un numero di telefono. Rispose una donna, credevo fosse la colf: “Di che vorrebbe parlare con la signora Goddard?”. E io: di Tempi moderni, di Charlie Chaplin. Chiacchier­ammo per un po’. Alla fine m’impietrì: “Non do interviste, il signor Biagi lo sa”. Andai da Enzo con le orecchie basse: è stata lei a fare il terzo grado a me, dice che non parla con i giornalist­i e che la cosa ti è nota. “Certo”, rispose Biagi, “ma nelle interviste bisogna cominciare da Dio. A scendere si fa sempre in tempo”».

Almeno le restò il numero della diva.

«Un giorno Lello Bersani, il primo cronista ad aver raccontato il mondo dello spettacolo al telegiorna­le, mi mise in mano la sua agendina: “Vedo in te il mio erede. Copia i nomi che ti servono”. Li trascrissi tutti sulla rubrica che uso ancor oggi. Morti inclusi, da Roberto Rossellini a Totò: non si sa mai. Infatti, il giorno che dovetti fare un servizio su Anna Magnani, chiamai il numero dell’attrice scomparsa e rispose il figlio Luca».

Sia sincero: è capace di arrabbiars­i?

«Altroché. Con me stesso. Come quando, nello speciale per i 70 anni di Alberto Sordi, dimenticai di chiedergli la genesi della battuta “Lavoratori­ii!” nei Vitelloni, accompagna­ta dalla pernacchia e dal gesto dell’ombrello».

Mai mandato qualcuno a quel paese?

«Con parsimonia, però sempre in maniera diretta. Anche perché da Fellini ho imparato che bisogna calcolare bene i tempi di un addio o di un vaffa. “Se lo sbagli di un solo secondo, ti si potrebbe ritorcere contro”, mi spiegò Federico».

Come prepara le sue interviste?

«Non le preparo. Devo solo sapere tutto su chi ho davanti. Per il resto, basta il dialogo schietto. Ricordo che a Cannes ero l’ultimo in una lista d’attesa di inviati da tutto il mondo per avvicinare Diane Keaton, che presentava il film Heaven. Mi ricevette dopo tre ore. Stremato, le chiesi di potermi servire al buffet. Fece portare il tè e prese a raccontarm­i della sua relazione con Woody Allen, di cui non aveva mai parlato. Per fortuna l’operatore filmò l’intera conversazi­one. Alla fine mi alzai per salutare. “E l’intervista?”, si stupì lei. Ha già detto tutto, risposi. “In effetti è la migliore che ho dato oggi. Può usarla. Ma non mostri troppi pasticcini”».

Quel personaggi­o di «Topolino» mi rappresent­a come nessun altro Non smetto di lavorare, cerco sempre il lato bello delle persone

Ha seguito 38 edizioni del Festival di Sanremo. Mi spiega perché piace tanto?

«È una festa nazionale, come il 2 giugno. Unifica l’italia. Lo seguono anonimi e vip. Luchino Visconti andava a vederlo con la Magnani a casa di Lello Bersani».

Il miglior presentato­re della gara?

«Resterà sempre Pippo Baudo».

C’è qualcuno che non s’è lasciato intervista­re da Mollica?

«Solo due: Bob Dylan e Mina».

Com’è finita con Piero Pelù che le infilò un preservati­vo sul microfono?

«Che siamo diventati amici. Capii l’intento sociale del suo gesto. Solo i cameramen si arrabbiaro­no con il rocker».

Per quale motivo il suo fan Fiorello sta a lungo lontano dalla tv?

«Fiore è un genio nell’arte della sorpresa, come Celentano. In questo periodo conduce Il Rosario della sera su Radio Deejay. Ogni mattina mi chiama e mi fa recitare le frasi dei rapper: m’è partita la sciabarabb­a; batti il cinque; questo spacca. Le manda in onda a sorpresa fra le 19 e le 20 e poi è così gentile da spiegarmel­e. Non sapevo che sciabarabb­a significas­se la perdita di lucidità mentale».

Albino Longhi mi diceva che togliere un giornalist­a dal video equivale a ucciderlo. Varrebbe anche per lei?

«No. Io non vivo di video. Il mio unico desiderio è raccontare ogni sera una storia. Per i primi sette anni gli spettatori del Tg1 non mi hanno mai visto. Ero un fantasma. Fu proprio Longhi a impormi di apparire qualche volta di sguincio».

Davvero ha chiesto di far scolpire sulla tomba l’epitaffio «Qui giace Vincenzo Paperica che tra gli umani fu Mollica»?

«Certo, è un desiderio che mia moglie dovrà rispettare. Al cimitero guardo gli ovali sui loculi e capisco che nessuno dei defunti ha scelto la foto per la lapide. Il cronista Paperica, inventato da Andrea Pazienza e Giorgio Cavazzano per Topolino, mi rappresent­a come nessun altro». ● Ha collaborat­o con varie testate, fra cui «L’unità», e ha doppiato il soldato Chienpo in «Mulan», il cartoon della Disney

 ??  ?? Alla scrivania Vincenzo Mollica, 66 anni, nel suo ufficio della Rai a Roma. Sotto, nel tondo, il personaggi­o di «Topolino» Vincenzo Paperica, che rappresent­a il giornalist­a emiliano Chi è● Vincenzo Mollica nasce a Formigine (Modena) il 27 gennaio 1953. Laureato in Legge. Sposato da 41 anni con una compagna di studi conosciuta alla Cattolica; una figlia di 34 anni che lavora nel ramo comunicazi­one● Eredita la passione per il giornalism­o dal padre Pasquale, cronista parlamenta­re, amico e collaborat­ore del dc Benigno Zaccagnini● Dopo gli esordi a Tele Amiata, arriva in Rai, assunto redattore al Tg1. Oggi inviato speciale. Ha lavorato con Enzo Biagi a «Linea diretta»● Ha rifiutato le vicedirezi­oni di Tg1 e Tg2 per continuare a occuparsi delle materie in cui è esperto (cinema, musica, fumetti e letteratur­a), trattate anche nella rubrica di sua invenzione, «Doreciakgu­lp»
Alla scrivania Vincenzo Mollica, 66 anni, nel suo ufficio della Rai a Roma. Sotto, nel tondo, il personaggi­o di «Topolino» Vincenzo Paperica, che rappresent­a il giornalist­a emiliano Chi è● Vincenzo Mollica nasce a Formigine (Modena) il 27 gennaio 1953. Laureato in Legge. Sposato da 41 anni con una compagna di studi conosciuta alla Cattolica; una figlia di 34 anni che lavora nel ramo comunicazi­one● Eredita la passione per il giornalism­o dal padre Pasquale, cronista parlamenta­re, amico e collaborat­ore del dc Benigno Zaccagnini● Dopo gli esordi a Tele Amiata, arriva in Rai, assunto redattore al Tg1. Oggi inviato speciale. Ha lavorato con Enzo Biagi a «Linea diretta»● Ha rifiutato le vicedirezi­oni di Tg1 e Tg2 per continuare a occuparsi delle materie in cui è esperto (cinema, musica, fumetti e letteratur­a), trattate anche nella rubrica di sua invenzione, «Doreciakgu­lp»
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