Settant’anni di canzoni, non sempre lo specchio del Paese
«N el seguire i cambiamenti (o l’immobilismo) della società italiana in rapporto alle canzoni di Sanremo, gli studiosi hanno sovente usato come termine di paragone un’idea di «canzone italiana assoluta», stabile, essenzializzata.
Ma è lo stesso Festival di Sanremo che ha «inventato» quell’idea di canzone, ne ha cristallizzato gli elementi formali e tematici e la ha associata stabilmente a una rete di significati, primo fra tutti proprio la sua italianità, l’idea che la canzone possa contenere lo spirito nazionale e che possa quindi “rispecchiare” qualcosa che succede nella società». Così Jacopo Tomatis in Storia culturale della canzone italiana (è appena uscito da il Saggiatore), un libro più che mai indispensabile di questi tempi: non solo per capire cosa succede ogni anno sul palco di Sanremo, ma soprattutto per ripercorre le vicissitudini della musica del nostro Paese negli ultimi settant’anni.
Tomatis ci offre un’analisi inedita e necessaria della canzone italiana, in tutti i suoi aspetti (interpreti, manifestazioni, politiche editoriali…). Parlare di musica significa aggiungere un tassello molto importante alla storia culturale. Per esempio, dovremmo smetterla di dire che Sanremo è lo specchio del Paese: la canzone non «rispecchia» la società in cui esiste. Casomai, esiste in stretto rapporto con la cultura in cui viene creata e fruita, e contribuisce essa stessa a modificare quella cultura. «L’incapacità di immaginare il futuro — scrive Tomatis — è anche l’incapacità di superare i vecchi paradigmi. Alla fine, anche nel nostro approcciarci alla musica pop, tendiamo a leggere i fenomeni che ci paiono “nuovi” attraverso lenti già abbondantemente usurate: la non commercialità come forma di valore artistico, l’autenticità, l’autorialità, persino il panico morale e la convinzione che la nuova musica non potrà mai essere meglio della vecchia musica».