ANTONIO PER NOI: VIAGGIO A PIÙ VOCI
DALL’ITALIA A STRASBURGO, CON GLI AMICI DI MEGALIZZI: «IL SUO DESIDERIO? CAPIRE»
Il reporter ucciso due mesi fa era fra le anime di Europhonica, radio focalizzata sull’unione I suoi giovani colleghi proseguono nell’avventura di raccontare un mondo complesso e sfaccettato, partendo dai ricordi lasciati sul luogo della strage
Pensavamo che avessero già dimenticato. In rue des Orfevres non c’è più niente. All’altezza del negozio di orologi dove Antonio Megalizzi e il suo amico Bartek Niedzielski sono stati colpiti, resta soltanto una macchia rossa di cera disciolta, i resti di una candela che qualcuno aveva posato per terra. Davanti al ristorante e in fondo alla via, non c’è più nemmeno quello. Eppure era appena due mesi fa, pomeriggio dell’undici dicembre 2018. L’hanno chiamata la strage del mercatino di Natale, anche se in realtà era più lontano, ma in fondo la città del Parlamento europeo è famosa per quella distesa di bancarelle. Allora abbiamo girato per le strade di Strasburgo, in cerca di un segno, di qualcosa che ci ricordasse questa ennesima follia, cinque persone uccise a caso da un folle nutrito da una folle ideologia religiosa.
Attraverso una di quelle vittime, un ragazzo che si chiamava Antonio, avevamo scoperto l’esistenza di persone che hanno un’altra idea di Europa. Noi spesso discutiamo di una entità che ci appare quasi astratta, che non ci interessa neppure conoscere. Loro viaggiavano di notte, in gruppo su utilitarie, su Flixbus, per lavorare gratis in una radio web che si chiama Europhonica, in una di queste istituzioni ignote. La studiavano, cercavano di spiegarne il funzionamento agli universitari, e non solo a loro. Senza alcun pregiudizio. Sembrava giusto ripartire da qui, dove tutto si era fermato. Siamo passati davanti alla statua della giraffa nell’accademia
delle Arti. Il vecchio Bartek, come lo chiamavano loro, nipote di ebrei polacchi perseguitati dai nazisti, intellettuale, giornalista, una figura di altri tempi, tirava fuori ogni volta una favola diversa su quello strano monumento. E poco distante abbiamo visto la casa di Bartek dove gli italiani di Europhonica alloggiavano quando erano qui. Rue des planches, due stanze al primo piano. Al balcone un ulivo, che qualcuno cerca di far sopravvivere alle temperature invernali. Non sono mai i luoghi, che raccontano le persone. Sono le idee, le speranze, la tenacia che ognuno ci mette per sopravvivere alla perdita di un amico. Bisogna ripartire da loro, dalle voci dei giovani colleghi di Europhonica, che proseguiranno in quello che è giusto.
Milano
Scena prima, in un bar di Milano, davanti alla fermata di Lampugnano della metropolitana. Quello era il punto di ritrovo. Uno di loro ci metteva la macchina a turno. Spese per benzina e autostrada condivise. Subito all’europarlamento, senza fermarsi, per la seduta plenaria. L’accordo è che parleremo di Europa. Ma prima c’è da affrontare il nome della cosa. La morte di Antonio, quello che ha lasciato. Andrea Fioravanti ha una voce bassa che rivela un dolore difficile da lenire. Conserva «per esigenze personali» ogni articolo su Antonio. «Avrei dovuto esserci io, al suo posto» dice, ed è la frase ingiusta che spesso pronunciano i sopravvissuti, costretti a macerarsi in un senso di colpa che è solo una conseguenza del trauma. Sembra più giovane dei suoi 27 anni, nonostante la barba che dissimula una timidezza innata. «Ci siamo trovati a cercare di dare un significato a una tra- gedia che non ha senso. L’unico modo è andare avanti. Antonio non era un pasdaran dell’unione europea, come è stato descritto. Era piuttosto un federalista europeo, che si era messo in testa di spiegare gli ingranaggi di questa istituzione». Europhonica nasce nella primavera del 2015. E’ un progetto promosso dal circuito europeo delle radio universitarie. Al primo bando italiano rispondono 70 studenti, per 20 posti. «Nessuno di noi si conosceva. Eravamo degli “scappati di casa” a cui veniva data la possibilità di fare i giornalisti. Gente da Catania, Trento, Torino, Roma, Pisa. Comunicavamo via Whatsapp, su ogni media possibile. Ancora oggi siamo più eterogenei di come ci hanno descritti. Se consideriamo l’europa come una macchina, c’era chi come me e Antonio pensava che dovesse andare verso Parigi e Berlino. Altri avrebbero sterzato in direzione di Atene, qualcuno per Visegrad. Ma tutti siamo convinti che non si possa tornare all’epoca del cavallo».
Verona
Scena seconda, nella stanza delle riunioni messa a disposizione dal Corriere del Veneto a Verona. Negli occhi e nella postura di Caterina Moser c’è quel riserbo che è uno scudo per difendersi dal male. Ha 24 anni, abita a Trento. Quel giorno, a Strasburgo, lei e la collega Clara Stevanato camminavano dieci metri più avanti rispetto ad Antonio e Bartek. Sono state le prime a soccorrere gli amici. «Il requisito principale richiesto dal bando era una buona conoscenza delle istituzioni europee. Mi preparai, ma ero sicura di non essere presa. Invece, a settembre, mi chiamarono: “Ti abbiamo presa”». La sua prima volta a Strasburgo, dicembre del 2015: «C’era un deputato euroscettico che incalzava il presidente Martin Schulz sulle mancanze dell’ue. Parlate con i vostri capi di Stato, fu la replica. Mi fece pensare. Quando diamo la colpa all’europa, in realtà puntiamo il dito contro noi stessi». C’è un momento preciso nel quale Europhonica divenne una comunità. Tredici novembre 2015, il Bataclan e gli attentati di Parigi. «Mi sembrava che stesse accadendo nella casa accanto alla mia. Nella nostra chat cominciammo a discutere. Ho ancora i messaggi di Antonio, di Andrea, degli altri. Cercavamo di capire cosa sarebbe successo. Ci interrogammo su cosa potevamo fare, come spiegare ai