Al via il processo agli indipendentisti Sánchez tra due fuochi sulla Catalogna
Al governo socialista serve il loro appoggio in Parlamento. L’ipotesi delle elezioni ad aprile
Accusato d’essere un «traditore della patria» da destra, isolato nel suo stesso partito, il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha davanti due giorni di fuoco: oggi quando partirà il processo agli indipendentisti di Barcellona e domani con un voto parlamentare che proprio da quel processo dipende. Davanti al Tribunale Supremo di Madrid compaiono questa mattina 12 politici catalani, quelli che non sono scappati all’estero come l’ex President Carles Puigdemont. Ci saranno 500 testimoni, 600 giornalisti, decine di dirette web e tv. Si tenta di sciogliere solo in punta di Diritto un rebus che è anche politico: può una regione staccarsi democraticamente dal resto di uno Stato democratico? Qualunque sarà la sentenza, i partigiani dell’altra parte grideranno allo scandalo e il conflitto resterà identico a prima. Il premier Sánchez ha tentato di evitarlo, ma finora ha fallito.
I 12 politici catalani sono accusati di aver organizzato nell’ottobre 2017 un referendum separatista illegale e poi una ancora più illegittima dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Alcuni sono in carcerazione preventiva anche da novembre 2017 e rischiano decine di anni di carcere. Tra i testimoni eccellenti ci sarà anche l’ex premier Mariano Rajoy. Il Tribunale Supremo lavorerà da lunedì a venerdì per chiudere al più presto questa fonte di instabilità. Ma si prevedono almeno tre mesi di dibattimento nei quali le testimonianze dei politici incarcerati e di quelli che hanno bloccato il loro progetto separatista divideranno ancora di più il Paese. Non un processo a «prigionieri politici», ma uno psicodramma nazionale in diretta tv. Alla fine però non ci sarà un voto su opinioni politiche diverse, ma condanne o assoluzioni.
A peggiorare la settimana del premier c’è l’appuntamento di mercoledì alle Cortes, il Parlamento. Sánchez deve far approvare la legge di bilancio 2019, ma ha bisogno di voti. Quando si trattò di scalzare l’allora premier Mariano Rajoy ebbe dalla sua anche degli indipendentisti catalani. Se invece domani, come sembra, il loro voto venisse a mancare (per l’ovvia ritorsione davanti all’apertura del processo) le misure sociali immaginate da Sánchez diverrebbero carta straccia e così scenderebbe nei sondaggi.
Il premier ha cercato l’appoggio catalano aprendo un timido dialogo politico sul separatismo. Dopo qualche gesto simbolico (come l’avvicinamento dei detenuti a casa e alcuni investimenti pubblici) ha proposto un tavolo di dialogo. Ha accettato anche la presenza di un «relatore», una figura terza com’è quella dell’inviato dell’onu in una guerra civile. Per la destra un insulto che avrebbe messo uno Stato legittimo come la Spagna sullo stesso piano dei ribelli secessionisti. Domenica un grande corteo ha unito le opposizioni (dal centro all’estrema destra neofranchista) nella richiesta di fermare il dialogo. Eppure a far fallire l’ipotesi del tavolo sono stati gli stessi catalani. All’ordine del giorno avrebbero voluto il «diritto all’autodeterminazione» di Barcellona. Una precondizione impossibile da digerire anche all’interno dello stesso partito di Sánchez.
Il dialogo tra Madrid e Barcellona è tornato così solo
In bilico
Se la legge di bilancio non passerà, le misure sociali di Sánchez resteranno senza fondi
quello tra giudici dell’accusa e avvocati della difesa e Sánchez ha mancato l’opportunità di pacificare il Paese. Gli resta la possibilità di provarci ancora con più forza dalle urne. In teoria potrebbe restare al governo con l’esercizio finanziario provvisorio fino alla scadenza della legislatura nel 2020. O giocarsi la carta delle elezioni ad aprile o a maggio assieme alle Europee. Da giovedì saranno i sondaggi a consigliargli il da farsi.