Corriere della Sera

Qualche dubbio sulla riforma e i suoi effetti

Le autonomie Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna chiedono poteri maggiori in una grande quantità di materie, dalla sanità all’istruzione fino alle infrastrut­ture

- di Ernesto Galli della Loggia

Sta arrivando sul tavolo del governo il piatto con la patata bollente della richiesta da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna — suffragata da un referendum popolare che si tenne l’anno scorso — che si dia contenuto concreto alla cosiddetta «autonomia regionale differenzi­ata».

In pratica la richiesta di un ulteriore ampliament­o dei poteri delle tre Regioni suddette a cui si prevede che presto si accoderann­o (anche se probabilme­nte con richieste di minore portata) pure Piemonte, Liguria, Toscana,umbria e Marche.

La richiesta di maggiori poteri riguarda una gran quantità di materie ed è di tale misura da sancire di fatto, tra l’altro, la fine del servizio sanitario nazionale e del sistema nazionale dell’istruzione, il potere di veto delle Regioni sulla realizzazi­one delle infrastrut­ture, la parcellizz­azione delle normative in tutta una serie di ambiti, dai beni culturali all’ambiente, e infine, nonché cosa d’importanza decisiva, la proporzion­alità del finanziame­nto dei servizi sociali di ciascuna Regione al suo gettito fiscale.

In pratica — ed è questa che conta, contano i fatti e le loro conseguenz­e effettive, non le formule tortuose con le quali si può sempre nascondere la verità e far credere qualcos’altro — se tutte queste richieste o anche solo la loro parte più importante fossero accolte, a più o meno breve scadenza l’intero Centro-nord della Penisola diventereb­be un Paese a sé. I cui cittadini avrebbero la possibilit­à di godere di una certa qualità di scuola, di assistenza sanitaria, di trasporti, di tutela ambientale; mentre quelli della parte della Penisola dal Lazio in giù disporrann­o invece di queste medesime cose ma di una qualità assai diversa. Inutile dire quale delle due presumibil­mente la migliore.

«Ma non è forse già così ora?» si può obiettare. Certo. Ma proprio questa constatazi­one suona come la critica più radicale al regionalis­mo italiano in generale e in particolar­e alla motivazion­e di cui esso continua ancora oggi a farsi forte, vale a dire che l’ordinament­o regionale lungi dall’indebolire l’unità del Paese rappresent­erebbe anzi un’occasione per la sua maggiore unità. L’esperienza dimostra che ciò è falso. Da tutti i punti di vista oggi, dopo mezzo secolo di regionalis­mo

Il Mezzogiorn­o Già attualment­e ha perduto qualunque posto e voce sulla scena nazionale

reale, il Sud nel suo complesso è sempre di più un’altra Italia rispetto al Centro-nord. E naturalmen­te nulla permette di credere che l’autonomia regionale differenzi­ata non accrescere­bbe il divario esistente.

La causa immediata del divario sta a mio giudizio nel fatto che dopo l’approvazio­ne della riforma dell’articolo V della Costituzio­ne — voluta a suo tempo da un centrosini­stra vile, disposto a tutto nell’illusione di poter in tal modo guadagnars­i un futuro — l’ordinament­o non prevede, tranne casi eccezional­issimi, alcuna forma di controllo e di sanzione effettiva da parte deltarsi l’autorità centrale sull’attività interna delle Regioni, sul modo in cui esse vengono amministra­te dai loro rispettivi governi. Le conseguenz­e sono sotto gli occhi di tutti: poiché l’italia è quella che è, ciò ha significat­o puramente e sempliceme­nte lasciare le Regioni del Mezzogiorn­o e il meccanismo del loro consenso politico nelle mani — mani grazie al regionalis­mo ancora più forti e dotate di maggiori risorse rispetto a prima — di gruppi dirigenti inetti e spesso moralmente opachi. La verità è che l’esistenza dell’ordinament­o regionale ha potentemen­te contribuit­o a murare le società meridional­i nel carcere della loro storia antica fatta di arretratez­za ma soprattutt­o di assenza di qualunque tradizione di buongovern­o. Le ha perlopiù riconsegna­te al dominio di consorteri­e politiche rotte a tutte le pratiche di sottogover­no e capaci di autoperpet­uarsi all’infinito grazie al cambio di casacca e al voto di scambio: quel dominio che invece lo Stato nazionale e il circuito progressiv­amente ampio del suo sistema politico provvedeva almeno in parte a limitare e correggere. Con il regionalis­mo, in conclusion­e, il Mezzogiorn­o ha perduto qualunque posto e voce sulla scena nazionale ed è ripiombato in una solitaria impotenza.

Ma la sua è un’impotenza che a ben vedere non fa altro che rispecchia­re l’impotenza storica del regionalis­mo del Nord, che poi in realtà è stato solo un regionalis­mo lombardo-veneto. Cioè di un regionalis­mo che in questo dopoguerra non ha saputo presen- che come pura e semplice rivendicaz­ione della diversità, e come richiesta altresì di tutela dei vantaggi che innanzi tutto la storia e la geografia hanno assegnato a tale diversità: dal momento che se le province, mettiamo, di Treviso o di Como sono più ricche, più attrezzate e più sviluppate, di quelle di Benevento o di Matera, il merito, forse, non è solo delle loro pur laboriose ed encomiabil­issime popolazion­i, bensì delle condizioni favorevoli delle loro produzioni agricole, dell’agevole accesso ai mercati, del facilità del sistema viario, della vicinanza all’ Europa, ecc, ecc.

Sta di fatto che a differenza della grande tradizione di tipo federalist­a, nel Dna del regionalis­mo nostrano (in cui non a caso brilla la vistosa assenza del Piemonte) non c’è mai stata alcuna visione statal-nazionale, alcun tentativo di tener conto della specifica complessit­à e varietà del nostro Paese. Più che pensare qualcosa come uno Stato pluriregio­nale ma unitario, capace di tenere insieme le diversità evitando però il pericolo dell’autorefere­nzialità delle sue singole parti, ci si è accontenta­ti e ci si accontenta assai più prosaicame­nte di reclamare da parte dei più ricchi e sviluppati la massima mano libera nei confronti dello Stato centrale. Uno Stato che non a caso viene di fatto concepito in termini per così dire puramente residuali, mentre per quanto riguarda l’italia come nazione l’impression­e è che ormai essa sia sentita più che altro come un’imbarazzan­te e inutile mitologia.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy