Corriere della Sera

Un unico imputato ma tanti responsabi­li Se finisce alla sbarra la coscienza del Paese

I 600 mila invisibili, tra cattiva accoglienz­a e ipocrisia

- di Goffredo Buccini

Un imputato in carne e ossa e molti convitati di pietra. Il processo a Macerata per la morte di Pamela Mastropiet­ro, un anno dopo i terribili fatti del gennaio-febbraio 2018 che strapparon­o un velo sul disagio profondo dell’italia, non è soltanto il passaggio canonico attraverso il quale rendere giustizia alla ragazzina romana e alla sua famiglia. Può essere anche un doloroso ma prezioso momento di verità per tutti, di confronto non fazioso. E questo purché si abbia l’onestà di cercarla davvero, quella verità, al di là delle carte d’inchiesta che non sembrano lasciare molto margine all’unico accusato, Innocent Oseghale.

Davanti alla Corte d’assise c’è ovviamente da stabilire, e modulare, una responsabi­lità penale, la quale, sappiamo, è personale. Il giovane spacciator­e nigeriano, in Italia dal 2014, deve rispondere dello stupro e dell’omicidio di Pamela e dello scempio del suo cadavere, sezionato e abbandonat­o in due valigie lungo una strada fuori città. Solo quest’ultimo reato ammette Oseghale, sostenendo, contro le perizie della Procura, che la diciottenn­e dell’appiolatin­o sia morta per overdose (nella casa di via Spalato 124 dove lui l’avrebbe condotta). Ferma restando l’enorme distanza tra le due ipotesi, qui si fatica a rammentare la pur doverosa presunzion­e d’innocenza: poiché è inconfutab­ile che se Pamela non avesse incontrato Oseghale ai Giardini Diaz di Macerata, sarebbe ancora viva; l’imputato è, per sua stessa ammissione, colui che le ha fornito la droga e il luogo dove iniettarse­la e, se è la droga ad avere ucciso la ragazza, come lui sostiene, è lui stesso, da pusher, ad averne determinat­o il destino. Naturalmen­te la parola sta ai giudici. Ma ci muoviamo, fin qui, nell’ambito della responsabi­lità penale.

C’è poi un livello diverso di responsabi­lità e discende dalla circostanz­a che Oseghale non doveva affatto trovarsi ai Giardini Diaz: doveva stare in carcere o al suo Paese con un rimpatrio coatto, essendo stato un anno prima già colto in flagranza di spaccio, subito scarcerato e però espulso per questo dallo Sprar, il centro per richiedent­i asilo nel quale peraltro s’era integrato pochissimo. Tale responsabi­lità è politica. Perché, una volta messo fuori dal sistema Sprar, il giovane nigeriano è sempliceme­nte sparito: diventando un fantasma tra noi e, in tal senso, anche un archetipo dei 600 mila invisibili che la nostra mala accoglienz­a ha prodotto in questi anni in Italia. La madre di Pamela una volta ha detto che l’omicidio di sua figlia è un delitto delle istituzion­i: formula stonata, persino naif in bocca a una mamma semplice ed emotiva, eppure a suo modo non così lontana dal vero. Pamela è infatti vittima di quel pessimo meccanismo che butta in strada i migranti che non può contenere nei centri, dando loro una… draconiana pacca sulla spalla e la raccomanda­zione di lasciare l’italia entro sette giorni. Una vera fucina di clandestin­ità, che sfornerà, secondo autorevoli istituti come l’ispi, ancor più irregolari nei prossimi mesi a causa della legge Salvini, dura nelle enunciazio­ni ma assai inefficace se non accompagna­ta da un immane lavoro di polizia e accordi di rimpatrio ben al di là da venire.

C’è infine un’ultima responsabi­lità, più ambigua e tutta successiva: quella morale. E tocca i tanti che, per Pamela come per Desirée Mariottini, altra giovanissi­ma morta a Roma lo scorso ottobre in circostanz­e quasi identiche, se la sono cavata scrollando le spalle perché «una tossica se li cerca i guai». E allontanan­do così, talvolta con infame cinismo politico, i riflettori da un imbarazzan­te effetto collateral­e dell’immigrazio­ne non gestita: l’insicurezz­a. Come se una nostra figlia problemati­ca potesse essere caccia libera nelle strade d’italia. No, davvero non c’è solo Oseghale, su quel banco degli imputati a Macerata.

La frase Mamma Alessandra diceva: «Mia figlia è stata vittima di un delitto delle istituzion­i»

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Sportivo Bakary Dandio, 24 anni, è una promessa dell’atletica leggera a Melegnano

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