Ligabue, una favola feroce
Tra le sue fonti ex voto, figurine e ricordi d’infanzia. La sua arte? Non così naïf
La vita di Antonio Ligabue, raccontata in catalogo da Marzio Dall’acqua, è come un romanzo, tra il feuilleton ottocentesco e Cuore. Storia amara di poveri operai e di un bambino nato a Zurigo nel 1899, dato in affido a una coppia svizzero-tedesca, nel 1913 collocato in un collegio per handicappati, alla fine espulso dalla Svizzera il 15 maggio 1919 e portato a Gualtieri, nella Bassa padana, dove vivrà con l’aiuto del Comune, isolato, lavorando nei campi saltuariamente, più volte internato nell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia fra 1937 e 1948. Poi, lentamente, ecco la scoperta della sua pittura e della scultura, un successo dominato sempre da una angosciante, stravolta solitudine fino alla morte il 27 maggio 1965 al ricovero Carri di Gualtieri.
Ecco un racconto perfetto per creare il mito di un van Gogh della Bassa, per ribadire, e lo fanno alcuni dei critici più ingenui, che l’arte è creazione lontana dalla consapevolezza, arte insomma come sublime pazzia. Ma è davvero così?
La mostra di Piacenza curata da Augusto Agosta Tota, presidente della Fondazione Archivio Antonio Ligabue di Parma — prima mostra mercato dedicata al pittore — suggerisce altre strade, e colpiscono subito le sculture, in origine in terracotta, adesso tirate in copie di bronzo, dove l’analisi delle forme, scavate, intense, sembra evocare, più che Auguste Rodin, l’analitico verismo di Émile Antoine Bourdelle. E Ligabue scultore sarà scoperto da un altro grande scultore: «Quando Mazzacurati — scrive Mario De Micheli nel 1972 — tra il ’27 e il ’28, lo trovò selvatico e sospettoso sulle rive del Po, dalle parti di Gualtieri, ebbe subito a constatare l’estrema elementarità con cui egli procedeva a modellare» ma anche la forza, la tensione, la consapevolezza delle forme e della materia. Dunque uno scultore, e uno scultore realista, da allora e fino alla fine. E i dipinti?
I preziosi, rari dipinti degli anni Venti e degli anni Trenta, come Pascolo montano (1928) o Fattoria (1935), mostrano la conoscenza di un tipo specifico di pittura, gli ex voto, magari visti nella penombra delle chiese; ma se, accanto a queste immagini, mettiamo dipinti come Leopardo con bufalo e iena (1928), Leone (1935), o Gattopardo con teschio (1933) scopriamo che lo gli animali feroci sono forme ritagliate attorno alle quali si affaccia una natura rada, dissonante, molto diversa, poniamo, da quella lussureggiante del Jardin des Plantes del Doganiere Rousseau.
Quali dunque le fonti di queste immagini? Si è detto: i libri illustrati, i cataloghi dei naturalisti; si è detto: la visita a qualche zoo; ma forse è possibile qui scoprire altro. Proprio l’appiattimento delle forme, bloccate al diapason della tensione, evoca, cita le serie, viste da bambino e, magari, forse in parte possedute, delle figurine Liebig che hanno enorme diffusione a inizi Novecento; qui le figure degli animali sono ritagli disponibili a essere inseriti in un diverso racconto. E a noi interessa proprio il senso del racconto: Tigre assalita dal serpente (1953), Tigre con gazzella (1959) suggeriscono la struttura delle fiabe; ancora una volta dunque memoria di una infanzia violata, angosciante?
Alcuni dipinti, come Castello (1954) o Diligenze con castello (1952) ci introducono a un mondo diverso, dame e magari principesse, torri e paesaggi medievali, luoghi sognati, distanti, visti ancora attraverso la pittura popolare svizzera ma forse evocati anche dalle pagine dei libri di fiaba. Osserviamo bene questi quadri: le forme delle fiere sono appiattite, le bocche sono spalancate, le fauci schiudono su un rosso ossessionante, quasi un sesso, quello che il pittore non ha potuto mai possedere. Scrive Cesare Zavattini: «Le desiderava tutte più passavano gli anni, finché si innamorò di una sola e invano». Questi dipinti suggeriscono infatti la tensione del possesso, così in Volpe con rapace o in Aquila che assale una volpe (1941); del resto i vari Gorilla (1955) propongono isolamento, solitudine, quello che è il senso dei molti, scarnificati autoritratti del pittore. Non serve inventarsi false categorie, come quella dei naïf, perché l’arte è sempre consapevolezza, cultura.
In fondo tornavano ai primitivi, tornavano agli ex voto anche i pittori dell’almanacco del Cavaliere Azzurro, che poi erano Wassily Kandinskij e tutti gli altri. Aveva ragione Alberto Moravia: «Questa ferocia espressa con colori onirici, psicologicamente involontari e culturalmente archetipici, è quella della solitudine dell’inconscio nella quale… non si comunica e si è sempre soli».