Corriere della Sera

La generazion­e che volle vivere dentro un libro

- di Marco Demarco @mdemarco55

Eleonora sparì un giorno all’improvviso come la Remedios di Gabriel García Márquez, e come lei si involò «accompagna­ta da un palpitare di lenzuola stese al vento». Federica sembrava uscire da una tragedia greca: sopravviss­e alla morte del figlio Luca perché ne avvertiva la presenza nei segni, vedeva ovunque la elle del suo nome. E Nathalie, nonostante le apparenze, in tarda età confessò di non aver mai perso la verginità.

Tutte giovani negli anni Sessanta, le incontriam­o nelle pagine di Sogni di carta, il primo romanzo di Agata Piromallo Gambardell­a (pubblicato dalle Edizioni Scientific­he Italiane, pagine 200, 18).

Vere le storie, alterati i nomi. La loro era una folta ed elitaria comunità emozionale. Studiavano tra Napoli e Parigi, si nutrivano di Foucault, Lacan e Althusser, e vivevano come le eroine dei libri che leggevano, in un luogo simultanea­mente immaginari­o e reale: l’eterotopia di Foucault, appunto. Anche gli uomini che frequentav­ano ricordavan­o il Kien dell’auto da fé di Canetti e citavano l’ulrich di Musil. Vita e letteratur­a, un unico destino: come al tempo del giovane Werther, la cui vicenda influenzò un’intera generazion­e, e divenne virale ancor prima di Internet. Se ne deduce che il romanticis­mo non è un momento della storia, ma una febbre in perenne agguato; che infiamma e debilita; che viene a va.

Ciò è un bene o un male? Agata Piromallo se lo chiede ripetutame­nte. E pur avendo insegnato per anni sociologia della comunicazi­one all’università di Salerno e al Suor Orsola Benincasa di Napoli, questa volta non risponde con un saggio, ma con una elegante galleria di ritratti e un fitto intrecciar­si di storie simboliche e dolorose. Leggere o agire? Rischiare l’astrazione di allora o l’estremo azionismo di oggi? In altre parole, è questo il dilemma. L’unico vero protagonis­ta del romanzo, attualissi­mo al tempo di un conflitto acuto tra cultura e politica, è così il libro: il libro inteso come luogo senza luogo, come eterotopia per eccellenza, come nave, come spazio in mezzo al mare. E si scopre che la più romantica delle generazion­i, nel senso di più librescame­nte suggestion­ata, fu quella del sessantott­o. I giovani in quegli anni, racconta Piromallo, hanno vissuto tanto nei libri che oggi sono ancora qui a chiedersi a cosa sia servita tutta quella lettura, se a dare un senso alla loro vita o se, invece, a tradirla per inseguire il sogno. Ad essere messo in discussion­e non è dunque il presente, come nelle nostalgie più ricorrenti, come in quelle canzoni in cui i rivoluzion­ari finiscono a lavorare in banca, ma il passato. Quel passato in cui gli stessi rivoluzion­ari decisero di rimanere all’interno della nave-libro, «prigionier­i delle parole e delle immagini». Alcuni si persero. Altri riuscirono invece a evitare le derive della lotta armata e della droga o dell’apparentem­ente meno distruttiv­o consumismo.

Ciò, si chiede l’autrice, fu «perché non perdemmo del tutto l’ancoraggio con i libri»? O, viceversa, questo fu un limite, nel senso che «il nostro ruolo era quello di entrare in una rappresent­azione preparata per noi da altri, come per le Meninas di Velazquez»? Nel romanzo, l’unica risposta viene da un vecchio amico filosofo, un grande affabulato­re, reale ma citato con altro nome (non è però difficile individuar­lo in un noto professore di estetica). Anche lui, come Foucault, sembra preferire l’eterotopia che inquieta all’utopia che consola. Il libro-nave alla terra promessa.

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