La generazione che volle vivere dentro un libro
Eleonora sparì un giorno all’improvviso come la Remedios di Gabriel García Márquez, e come lei si involò «accompagnata da un palpitare di lenzuola stese al vento». Federica sembrava uscire da una tragedia greca: sopravvisse alla morte del figlio Luca perché ne avvertiva la presenza nei segni, vedeva ovunque la elle del suo nome. E Nathalie, nonostante le apparenze, in tarda età confessò di non aver mai perso la verginità.
Tutte giovani negli anni Sessanta, le incontriamo nelle pagine di Sogni di carta, il primo romanzo di Agata Piromallo Gambardella (pubblicato dalle Edizioni Scientifiche Italiane, pagine 200, 18).
Vere le storie, alterati i nomi. La loro era una folta ed elitaria comunità emozionale. Studiavano tra Napoli e Parigi, si nutrivano di Foucault, Lacan e Althusser, e vivevano come le eroine dei libri che leggevano, in un luogo simultaneamente immaginario e reale: l’eterotopia di Foucault, appunto. Anche gli uomini che frequentavano ricordavano il Kien dell’auto da fé di Canetti e citavano l’ulrich di Musil. Vita e letteratura, un unico destino: come al tempo del giovane Werther, la cui vicenda influenzò un’intera generazione, e divenne virale ancor prima di Internet. Se ne deduce che il romanticismo non è un momento della storia, ma una febbre in perenne agguato; che infiamma e debilita; che viene a va.
Ciò è un bene o un male? Agata Piromallo se lo chiede ripetutamente. E pur avendo insegnato per anni sociologia della comunicazione all’università di Salerno e al Suor Orsola Benincasa di Napoli, questa volta non risponde con un saggio, ma con una elegante galleria di ritratti e un fitto intrecciarsi di storie simboliche e dolorose. Leggere o agire? Rischiare l’astrazione di allora o l’estremo azionismo di oggi? In altre parole, è questo il dilemma. L’unico vero protagonista del romanzo, attualissimo al tempo di un conflitto acuto tra cultura e politica, è così il libro: il libro inteso come luogo senza luogo, come eterotopia per eccellenza, come nave, come spazio in mezzo al mare. E si scopre che la più romantica delle generazioni, nel senso di più librescamente suggestionata, fu quella del sessantotto. I giovani in quegli anni, racconta Piromallo, hanno vissuto tanto nei libri che oggi sono ancora qui a chiedersi a cosa sia servita tutta quella lettura, se a dare un senso alla loro vita o se, invece, a tradirla per inseguire il sogno. Ad essere messo in discussione non è dunque il presente, come nelle nostalgie più ricorrenti, come in quelle canzoni in cui i rivoluzionari finiscono a lavorare in banca, ma il passato. Quel passato in cui gli stessi rivoluzionari decisero di rimanere all’interno della nave-libro, «prigionieri delle parole e delle immagini». Alcuni si persero. Altri riuscirono invece a evitare le derive della lotta armata e della droga o dell’apparentemente meno distruttivo consumismo.
Ciò, si chiede l’autrice, fu «perché non perdemmo del tutto l’ancoraggio con i libri»? O, viceversa, questo fu un limite, nel senso che «il nostro ruolo era quello di entrare in una rappresentazione preparata per noi da altri, come per le Meninas di Velazquez»? Nel romanzo, l’unica risposta viene da un vecchio amico filosofo, un grande affabulatore, reale ma citato con altro nome (non è però difficile individuarlo in un noto professore di estetica). Anche lui, come Foucault, sembra preferire l’eterotopia che inquieta all’utopia che consola. Il libro-nave alla terra promessa.