«Fyre», la differenza tra la realtà e il mondo patinato dei social
C i voleva il documentario Fyre, uno dei più recenti lanci di Netflix, a squarciare il velo su un aspetto cruciale della mutazione antropologica che stiamo vivendo nell’epoca dei social media: la differenza tra realtà e immagine riflessa dai profili online, tra autenticità e fake. La storia è questa: Billy Mcfarland è un giovane imprenditore americano che si è affermato grazie ad alcune start up «fighette» che hanno richiamato l’attenzione di grandi investitori, pronti a finanziare generosamente i suoi progetti. L’incontro con il rapper Ja Rule è foriero di quella che sembra un’idea clamorosa: organizzare un grandioso festival musicale «di lusso» su una sperduta isola delle Bahamas (addirittura appartenuta a Pablo Escobar), una sorta di Woodstock per Millennials ricchi, vendendo biglietti all inclusive che arrivano a toccare i 200 mila dollari. Per promuovere l’iniziativa, Mcfarland coinvolge le modelle e influencer più famose, generosamente foraggiate per volare alle Bahamas e postare sui propri profili l’endorsement al festival Fyre. Sui social sembra tutto un paradiso patinato, i biglietti vanno a ruba, ma la realtà è ben altra: in un cumulo di incapacità organizzative, problemi economici, litigi e truffe, Mcfarland si rivela al mondo per quello che è: un imbroglione non all’altezza di gestire un’operazione così complessa. Con alcune trovate stilistiche, il documentario riesce a far lievitare il senso della tragedia, che esplode nel momento in cui i partecipanti atterrano alle Bahamas per ritrovarsi in mezzo al niente, con conseguenti gravi problemi di ordine pubblico. Tutto naturalmente documentato sui social. Fyre porta a termine un’impresa non facile: costruire un racconto pieno di tensione, ricostruendo una storia vera che è a tutti gli effetti quella di una truffa, e nel frattempo trasfigurandola in una specie di «apologo», un racconto pedagogico sugli effetti perversi della nuova caverna di Platone.