Corriere della Sera

«Io bambino e quella luce Così la scelta di vivere in Europa»

TODOROV E QUELLO CHE SIAMO ORA: IL CAMBIAMENT­O È NECESSARIO, SENZA DISPERDERE L’EREDITÀ CHE CI LEGA

- di Mika

«Danzavamo con le lacrime agli occhi, anche quando erano esplose le bombe quello stesso pomeriggio. Avevamo adottato la regola del sufismo, vivere ogni giorno come fosse il nostro ultimo giorno. Non lasciavamo che fosse la nostra sofferenza a definirci, ma la nostra resistenza».

Questo mi spiegava la mia prozia mentre sedevamo nel nostro appartamen­to nel sedicesimo arrondisse­ment di Parigi. Il caffè che lei beveva era impreziosi­to dal cardamomo, schiumoso e dolce, quel profumo confuso nel suo respiro mentre mi parlava di Beirut, la città in cui era nata, tormentata dalla guerra civile. Avevo 7 anni, lei 64. Era il 1990, l’anno del cessate il fuoco. La mia famiglia si era trasferita a Parigi nell’85, espatriata dalle forze navali americane, lei ci aveva raggiunti l’anno successivo. Fumava sigarette e mi raccontava storie di Beirut «la Parigi del Medio Oriente», della moschea alla fine della sua strada, del beach club dove aveva incontrato suo marito, e dei parrucchie­ri, che una volta avevano acconciato lo chignon di Elizabeth Taylor. «Era così bella, come Parigi ma con più colore. Uscivamo sempre, anche con le bombe, uscivamo comunque».

Europei per scelta

Per la maggior parte della mia vita, non mi sono mai fatto domande sul perché i miei genitori avessero scelto la Francia. Entrambi cittadini americani, mio padre un Wasp (white anglosaxon protestant, termine usato negli Stati Uniti per indicare i bianchi benestanti principalm­ente di origine britannica, ndr) che veniva da Savannah, Georgia, e mia madre, un’americana di prima generazion­e di famiglia siriana-libanese, avevano scelto Parigi dopo essere stati portati a Cipro nel pieno della guerra civile libanese. Non erano rifugiati e, poiché avevamo tutti il passaporto americano, saremmo potuti ritornare facilmente a vivere lì. Solo di recente, negli ultimi anni, da quando ho superato i trenta, ho cominciato a capire la loro scelta. Lo avevano fatto per noi, per i loro figli, per me.

Lasciando Beirut, volevano una vita diversa da quella che potevano offrire gli Stati Uniti. Sentivano l’attrazione per un certo tipo di cultura, per un sentimento diverso della vita. Mia mamma mi diceva che la luce era differente a Beirut, e che lei voleva che parte di quella luce rimanesse in noi, nei suoi figli, anche se non potevamo più vivere lì. Preferiva la luce di Parigi a quella degli Stati Uniti.

Capisco ora che i miei genitori non scelsero la Francia, scelsero l’europa, e così facendo mi resero europeo.

Capisco ora che la luce da cui erano attratti, quella che scelsero, era nata direttamen­te da un atto di volontà, una unione decisa negli anni 50, ma che si era andata definendo molto prima, costruita sui pilastri dell’universali­tà, della pace e della libertà. Fin dal Rinascimen­to, artisti e scrittori hanno costruito insieme il concetto di Europa. Artisti di Paesi diversi del continente viaggiavan­o per lavoro, spinti dall’ispirazion­e per le reciproche culture e dal potere dello scambio artistico. Grazie alle loro idee, senza volerlo, si è andata intreccian­do la prima tessitura dell’unione dei Paesi europei. Liberi dai confini, sono stati questi scambi a produrre l’epoca più grande dai tempi dei romani e dei greci. Shakespear­e ispirato dalla poesia e dai racconti italiani, Ibsen che viveva a Roma e debuttava con i suoi lavori in Germania.

Nel preferire l’europa agli Stati Uniti, i miei genitori erano guidati da un sogno, da una promessa. Un’anima europea. Questa anima europea è universale. Non appartiene solo a coloro che vivono in Europa, ma a ogni uomo e donna nel mondo. È questo il motivo per il quale, quando è veramente unita, l’europa aiuta non solo gli europei, ma tutta l’umanità. L’universali­tà dell’europa si espande oltre la sua presente area geografica.

Il mio patriottis­mo

Io sono nato a Beirut, cresciuto a Parigi, ho ricevuto la mia istruzione e completato la mia preparazio­ne artistica nel Regno Unito. Ho beneficiat­o enormement­e di questa cultura dello scambio e della possibilit­à di crescere e apprendere in Europa. È quello che ho imparato muovendomi, le lingue e tutto il resto, che mi ha dato la capacità di affrontare culture che non sono la mia senza paura, ma con curiosità e desiderio. Adesso vivo tra almeno tre Paesi, ma la mia identità è europea. Tecnicamen­te, come posso dimostrarl­o? Nessun documento. Non ho passaporto, a parte quello statuniten­se, ma la mia coscienza patriottic­a, e la mia cultura sono legate all’europa. Mi rifiuto di credere che l’ideologia e l’unione su cui sono costruite la mia filosofia culturale e la mia stessa identità possano essere distrutte o svalutate. Questo è il mio patriottis­mo, questo sono io che proteggo il mio futuro e considero il significat­o del mio passato. È precisamen­te questa minaccia alla mia identità che mi ha spinto a riconsider­are cosa sia l’europa e a rivalutare la mia stessa convinzion­e del suo valore futuro. Sento che viviamo un momento di compiacenz­a per un’epoca post nazionalis­ta.

Devo ammettere che io stesso più di una volta ho seguito quella che definirei una tendenza anti-europeista. Sebbene ami molte delle nazioni che formano il nostro continente, mi vengono i brividi di fronte alla fredda e burocratic­a tecnocrazi­a rappresent­ata da Bruxelles. I suoi alienanti meccanismi politici interni. È chiaro che le cose devono cambiare e che non fare nulla, solo per preservare

un’ideologia europea, non è un’opzione.

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Mi sento intimidito da Bruxelles e dalla sua burocrazia ma, anche se non potrò votare, voglio sapere cosa c’è da difendere. Ho paura che il nazionalis­mo si limiterà a distrugger­e la nostra idea di universale

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Il cantante Mika, 35 anni, originario di Beirut, in un momento del video girato a Bruxelles
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Album di famiglia Dall’alto a sinistra in senso orario: Mika appena nato con le sorelle e la mamma Joannie; Mika con una delle sorelle nella casa di Parigi; il cantante durante un road trip in Italia nel 2013; la vista sul lungomare di Beirut dalla casa della famiglia Penniman in uno scatto degli anni Ottanta

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