Corriere della Sera

Quanti insulti ai giudici nella stagione del risentimen­to

- di Paolo Mieli

Quando tra qualche tempo ci dedicherem­o a mettere a fuoco l’attuale stagione di rabbia e risentimen­to, gioverà soffermarc­i, quantomeno per quel che riguarda l’italia, su questo inizio 2019 nel quale in poco più di un mese per ben tre volte in aule di tribunale un’udienza è stata turbata da urla e insulti alla corte. La prima fu per la condanna (in appello) di Antonio Ciontoli, padre della fidanzata di un giovane, Marco Vannini, ucciso nella loro casa a Ladispoli nel maggio del 2015.

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SEGUE DALLA PRIMA otivo della protesta, la riduzione della pena nell’ipotesi accolta dal giudice che si fosse trattato di un omicidio colposo. La seconda in occasione della sentenza di condanna per la morte, nel luglio 2013, dei quaranta passeggeri di un vecchio pullman uscito dall’a16 che, sulla Napoli-canosa all’altezza di Avellino, ruppe i freni e precipitò nella scarpata di Acqualonga provocando quello che è considerat­o come il più grave incidente della storia italiana. Motivo delle lamentazio­ni, stavolta, la mancata condanna dell’amministra­tore delegato di autostrade Giovanni Castellucc­i. La terza in una delle udienze finali del processo di secondo grado per la strage di Viareggio (giugno 2009) allorché il gpl, uscito da una cisterna colpita da un treno deragliato mentre entrava nella stazione, aveva causato la morte di trentadue persone. Qui all’origine dello sdegno collettivo il fatto che l’ex amministra­tore delegato delle Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti (già condannato in primo grado a sette anni), abbia ora rinunciato alla prescrizio­ne, pur proclamand­osi innocente, con una dichiarazi­one di «rispetto al dolore dei familiari». «Devi sciacquart­i la bocca prima di parlare delle vittime di Viareggio», gli hanno urlato dall’aula giudiziari­a.

Cosa hanno in comune queste tre circostanz­e? L’ira dei parenti delle vittime sulla quale non potremmo permetterc­i altro che parole di comprensio­ne. In situazioni del genere il dolore è tale che non può esservi posto limite. Ma, dal momento che le aggression­i ai giudici e agli imputati non sono venute solo dai familiari dei morti bensì anche da altri coinvolgen­do perfino i due vicepresid­enti del Consiglio, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, forse è il caso di fermarsi a ragionare pubblicame­nte su cosa siano diventati i processi italiani. La prima osservazio­ne da fare è che quando in questi dibattimen­ti è coinvolto un esponente di alto livello, come nei casi Castellucc­i e Moretti, viene immediatam­ente considerat­a un’ingiustizi­a dalla collettivi­tà la mancata condanna al massimo della pena. E viene ritenuto un segno di sottomissi­one ai poteri costituiti persino un caso come quello dell’amministra­tore di Autostrade laddove

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Alta tensione

In poco più di un mese per ben tre volte in aule di tribunale un’udienza è stata turbata da urla

appare evidente che se lui stesso e tutti i suoi uomini avessero trascorso le settimane che precedette­ro la caduta del bus nel dirupo a riavvitare i bulloni del guardrail, si sarebbe riusciti a scongiurar­e l’incidente. Viene poi tenuto nel conto di un sotterfugi­o per ingraziars­i i giudici e perciò meritevole di sdegno persino l’atto di rinuncia alla prescrizio­ne che è ciò che normalment­e viene chiesto a tutti coloro che si sono trovati in situazioni simili a quelle di Moretti. In altre parole, se un amministra­tore delegato viene coinvolto in un caso del genere, la stragrande maggioranz­a degli osservator­i e delle persone comuni non prendono neanche in consideraz­ione che possa essere innocente o che i giudici non riescano a raccoglier­e prove sufficient­i a condannarl­o. Persino una sconto di pena verrà considerat­o un’«infamia».

Ha fatto notare il presidente dell’unione delle camere penali Gian Domenico Caiazza che i tribunali che non condannano ipso facto gli imputati eccellenti vengono accusati di viltà e di aver voluto sancire con le loro sentenze che il delitto da loro preso in esame «non ha colpevoli». È un falso sillogismo sperimenta­to le prime volte nei processi per le stragi degli anni Settanta quando gli inquirenti che (assai spesso, purtroppo) non erano riusciti ad individuar­e con prove certe in mandanti di quegli orribili delitti venivano regolarmen­te additati come

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Rabbia immotivata Interessan­te il caso del padre della fidanzata che ha ucciso un ragazzo (forse senza volere)

rei di aver stabilito che quelle erano stragi «senza colpevoli». Come se decine, centinaia di magistrati impegnati su quei casi fossero stati a un certo punto raggirati o corrotti per tener nascosta la verità. Una «verità» che, senza curarsi della mancanza di evidenze e riscontri, molti hanno poi lasciato depositars­i in libri e manuali di storia ammantando­la solo di qualche cautela quando era il momento di indicare i responsabi­li con nome e cognome.

È l’infernale meccanismo che prende le mosse dal celebre articolo pubblicato su questo giornale il 14 novembre del 1974 da Pier Paolo Pasolini il quale si diceva certo dell’identità dei «colpevoli» delle stragi degli anni Settan- ta, salvo non poter mettere quei nomi nero su bianco per assenza di riscontri. Per lui era forse legittimo in quel particolar­e frangente storico denunciare in tal modo lo stato delle cose. Forse. Poi però per decine di anni la scuola pasolinian­a ha fatto proseliti al di là probabilme­nte delle intenzioni dell’autore. Tant’è che oggi sono pochissimi quelli che nel considerar­e un processo si fanno scrupolo di tenere nel debito conto le prove o l’assenza delle stesse. Tutti sanno ma pochi hanno le prove.

Ma c’è dell’altro. Dell’altro che non riguarda più gli «eccellenti». Sotto questo profilo il caso più interessan­te tra quelli di cui abbiamo parlato all’inizio è il primo, quello del padre della fidanzata che assieme ad alcuni familiari ha ucciso — probabilme­nte senza intenzione — il giovane a Ladispoli. Qui non ci sono amministra­tori delegati, agli effetti del risarcimen­to del danno conta poco definire per quale motivo e in che condizioni Ciontoli abbia ucciso Vannini, resta l’interesse pubblico (della giustizia) a stabilire come sono andate davvero le cose. Nient’altro. I giudici ci proveranno ancora (manca il terzo grado, la Cassazione) e non c’è davvero nessun motivo per considerar­e coloro che se ne sono occupati o che se ne occuperann­o complici della mala giustizia. Se alla fine tutto si concluderà con un’attenuazio­ne della pena, possiamo pensare solo che questa sia la spassionat­a valutazion­e dei magistrati. Eventuali nuove manifestaz­ioni di ira come quelle che si sono avute alla sentenza di appello sono da mettere nel conto solo dei tempi di risentimen­to in cui stiamo vivendo. Ed è per tale motivo che questo caso — senza imputati eccellenti — è forse più importante degli altri due.

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