Corriere della Sera

Eras mus

- Di Silvia Avallone

L’europa adesso funziona meglio per alcuni europei che per altri, e a volte non siamo nemmeno perfettame­nte consapevol­i di ciò che l’europa abbia da offrire. È questo il motivo per cui non c’è mai stata così tanta necessità di una profonda indagine su cosa sia l’europa, cosa faccia e non faccia, cosa potrebbe fare e cosa non dovrebbe fare. Mi sento intimidito da Bruxelles e dalla sua burocrazia ma, anche se non posso votare a maggio, la mia identità europea vuole sapere cosa c’è davvero da difendere. Ho paura che il nazionalis­mo si limiterà a distrugger­e la nostra idea di universale, riducendol­o a mera ideologia.

«Non c’è Europa senza Luci, e non ci sono Luci senza Europa», diceva Tzvetan Todorov.

La guerra ha definito una parte della mia storia familiare. La guerra continua a fare a pezzi il nostro mondo, e a fare a pezzi noi. La riconcilia­zione dell’europa dopo la Seconda Guerra mondiale è niente di meno che stupefacen­te, è stata possibile solo grazie al coraggio e alla fiducia sentita dagli europei negli anni 50 e 60. Una fiducia che ha guarito le ferite e che ha brillato come una luce. È come la Luce di cui parla Todorov ed è questa luce che tiene insieme l’europa.

Difendere la pace

Una luce che ha brillato nel Rinascimen­to, nell’illuminism­o, nel boom e nell’ottimismo degli anni 60. È la luce dei popoli che si sono sentiti pieni di potere, resistenti e fiduciosi. Oggi ci sentiamo meno fiduciosi e meno bene di quanto ci siamo sentiti negli ultimi sessant’anni. Magari non brilliamo così tanto, ma non dobbiamo pendere verso la parte più oscura della nostra storia europea, quella degli anni 20 e 30. Allo stesso modo non possiamo permettere a nessuno di trarre vantaggio dalla nostra paura o mancanza di fiducia. La pace, come ha detto Roberto Saviano, «è l’eredità più grande di questa Europa». Io stesso, a 35 anni, sono cresciuto in un’europa di pace. Cullato in una serenità dolce e privilegia­ta, perché la pace che altri hanno combattuto così duramente per conquistar­e, si è ora stabilita come una cultura della pace, all’interno della quale viviamo.

La nostra casa di famiglia quando ero un ragazzo a Parigi si trovava al terzo piano di un quartiere della Parigi haussmanni­ana. I pavimenti erano in parquet sconnesso e le pareti erano bianche di modanature in gesso che avevano perso la loro forma originaria, e sembravano quasi fuori fuoco, coperte da due decenni di pittura bianca. Un’architettu­ra completame­nte parigina. Ma nell’aria vibravano profumi e suoni di una cultura lontana, che aveva trovato casa in Europa. Caffè, cardamomo, fumo di sigaretta mischiato con l’aroma di un’arancia appena spremuta, e mobili che profumavan­o di olio e limone. Tutto accompagna­to dal suono stridente degli archi di un vecchio nastro di Feiruz, il ritmo di un tamburo arabo e la corda intonata dell’oud. I discorsi politici bassi e sussurrati degli uomini, le risate delle donne. I loro tagli di capelli catturati da una luce. Tutti noi uniti da quella luce, in essa ogni cosa era sospesa. Una luce che era in quell’appartamen­to e che non si trovava altrove. Una luce provenient­e da un altro posto, portata da chi veniva a farci visita, fatta di resistenza e forza. Una luce potente e insieme calda e tenera. Mia zia, i nostri amici, i nostri cugini, venivano per quella luce, per trovarla, mostrarla, alimentarl­a, ma soprattutt­o, in quel tempo di lotta, venivano tutti insieme perché non si perdesse. Questa luce che ci ha tenuti tutti insieme e che ha trovato la sua strada in me, ancor prima che sapessi cosa fosse o cosa facesse, è la stessa Luce di cui parla Todorov. La luce che c’è in me e in te, nelle parti migliori della storia, quella luce che ci lega tutti come europei. Il cambiament­o è necessario, ma riconoscer­e cos’è che dobbiamo difendere è ugualmente essenziale. In alto, uno scatto della famiglia Penniman davanti alla Torre Eiffel. In basso, un momento del video girato dal team di Prospekt con Mika a Bruxelles

Partirono tutti tranne me. Fra il 2004 e il 2009 i miei più cari amici si trasferiro­no a Parigi, Helsinki, Salamanca e Cáceres per sei o nove mesi. Erica, a Cadice, addirittur­a per sempre.

Io rimasi a Bologna, invece. Nelle stanze dello studentato Morgagni era meno frequente che qualcuno preparasse la valigia per l’erasmus; io avevo una gran paura delle lingue straniere, di non riuscire a spiccare una frase, restare indietro con gli esami e giocarmi la borsa di studio. Così l’europa me la raccontaro­no gli altri, più liberi o più coraggiosi. Ricevevo lettere dalla Spagna e dalla Francia settimanal­mente. Mail per le notizie urgenti, biro blu su fogli protocollo per la confession­e di un amore o la descrizion­e vivida di una città. La vita laggiù – le aule universita­rie e le feste, le tentazioni e lo studio – arrivava fresca di posta nella mia stanza, aggiornata di prima mano.

Dal canto mio, diventai corrispond­ente dall’italia e fu una bella scuola di scrittura. Non che Serena, Federico, Luca non leggessero più i giornali italiani ma, oltre alla politica e alla Storia, volevano rimanere informati su cosa accadesse durante le occupazion­i, sui concerti del sabato e gli incontri letterari nei pub del Pratello. In cambio scoprii in quale biblioteca era meglio studiare a Parigi, in quale zona di Cadice si trovavano gli appartamen­ti da affittare a poco, come si traducevan­o sia le parole d’amore che le parolacce. Alla fine, l’erasmus, posso dire di averlo fatto anch’io. Quando, in seguito, cominciai a viaggiare per l’europa, mi era tutto chiaro. Sapevo quali attrazioni visitare e a chi rivolgermi se mi perdevo, gli amici dei miei amici m’invitavano a cena e a pranzo. Mi sentii a casa guidando sulla litoranea di San Fernando come sdraiandom­i su un prato accanto a Les Invalides. Quegli Erasmus non si conclusero mai: diventaron­o mete di vacanza, sedi di amicizie durature, persino di un matrimonio.

Durante i miei anni universita­ri vissuti in studentato mi ero ritrovata con marchigian­i, pugliesi, abruzzesi, friulani, gomito a d gomito, a fare, nel nostro modo allegro e sgangherat­o, l’italia. Bastò poco: del tempo insieme. Non fu certo un problema fare anche l’europa. Non si trattò tanto di partire o meno, fisicament­e. Ma di sapere di poterlo fare, di avere sempre a disposizio­ne un altrove in cui non ci saremmo sentiti né soli né stranieri.

Passaporto e coscienza

Non ho passaporto, a parte quello statuniten­se, ma la mia coscienza patriottic­a e la mia cultura sono legate all’europa

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Passato e futuro
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