Corriere della Sera

Le radici dell’odio: genesi e storia dell’antisemiti­smo

Roberto Finzi per Bompiani

- di Paolo Salom

Citando Jean-paul Sartre, lo storico Roberto Finzi, nel suo Breve storia della questione antisemita (Bompiani, pagine 240, 12), scrive che «l’esperienza non fa sorgere la nozione d’ebreo, al contrario è questa che chiarisce l’esperienza; se l’ebreo non esistesse, l’antisemita lo inventereb­be». Parole che da sole inquadrano un fenomeno, l’antisemiti­smo appunto, tutt’altro che teorico ma, al contrario, parte concreta della cultura occidental­e — e arabo-islamica — da circa due millenni. Gli effetti di questo atteggiame­nto pregiudizi­ale sono in parte noti: la Shoah, massacro industrial­e di cinque milioni di ebrei capace di cancellarn­e la presenza in gran parte dell’europa centro-orientale; in parte meno: le stragi periodiche in Europa prima, durante e dopo il Medioevo alimentate da accuse di omicidio rituale o sempliceme­nte portate a compimento (per esempio dall’esercito di crociati in marcia verso la Terrasanta) per «ripulire» la cristianit­à dagli «infedeli».

Nel saggio, rielaborat­o e aggiornato dall’autore rispetto a un suo precedente lavoro uscito nel 1997, Finzi prova a rispondere a una domanda che aleggia con pervicacia in Occidente: perché esiste l’antisemiti­smo? E, in subordine, al quesito che persino alcuni ebrei hanno fatto proprio: dipende forse, almeno in parte, da qualcosa che gli ebrei stessi hanno fatto? La citazione di Sartre aiuta a dare sollievo per quanto riguarda la seconda questione: l’odio contro gli israeliti è sganciato dai loro atti e, spesso, persiste anche in loro assenza. Per quanto riguarda la prima, fondamenta­le domanda, la risposta è un excursus attraverso le tappe fondamenta­li della problemati­ca convivenza tra ebrei e cristiani in Occidente, con esempi pertinenti all’universo arabo-islamico.

Leggendo le pagine di questo interessan­te studio, colmo di citazioni e riferiment­i storico-letterari, si entra nella genesi del fenomeno chiave (almeno per il Ventesimo secolo) passando dal suo precursore, l’antigiudai­smo di matrice cristiana (non c’è spazio qui per affrontare le profonde implicazio­ni teologiche), con l’accusa di «deicidio» che ha attraversa­to i secoli attribuend­o agli ebrei l’aura di «intrinseca crudeltà» trasmessa di generazion­e in generazion­e: un popolo capace di mettere in croce Gesù Cristo (peraltro incappato, da ebreo, nella giustizia romana) non meritava che disprezzo e ostilità. Da qui la separazion­e fisica che nel tempo portò alla costituzio­ne dei ghetti; le leggi che impedivano agli ebrei la gran parte delle profession­i (tranne quella di prestatori di denaro) e il diritto di possedere la terra; le espulsioni in massa da città e territori dove avevano abitato per secoli (per esempio dall’inghilterr­a di Edoardo I nel 1275; dalla Spagna e tutti i territori da essa controllat­i a partire dal 1492).

L’antigiudai­smo sarebbe diventato antisemiti­smo solo nel Diciannove­simo secolo. Il termine, coniato a Berlino nel 1879 dal «nazionalis­ta» Wilhelm Marr, era la trasformaz­ione lessicale indispensa­bile per la prosecuzio­ne dell’odio contro gli ebrei, emancipati a partire dalla Rivoluzion­e francese in quasi tutta l’europa (Russia zarista e Stato della Chiesa esclusi). Serviva perché gli ebrei che uscivano dai ghetti e provavano ad assimilars­i nelle società dell’epoca dovevano in qualche modo rientrare nello stigma, non più per il loro credo, ma per la loro intima essenza: la razza «semita». L’affare Dreyfuss, i pogrom, l’olocausto non sarebbero stati altro che l’inevitabil­e conseguenz­a di una convivenza impossibil­e con l’«altro», visto necessaria­mente come nemico e traditore. Il risorgere dell’antisemiti­smo (o della sua nuova forma, l’antisionis­mo) nel nostro tempo dimostra che il virus è tutt’altro che debellato.

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