È morto Bruno Ganz l’angelo di Wenders
Addio all’attore che interpretò tormenti umani e cattiverie dall’angelo di Wim Wenders alle urla isteriche di Hitler
Èmorto Bruno Ganz, attore che ha saputo essere un vero angelo (in Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders) e un vero diavolo, vedi il finale di partita di un isterico, urlante Hitler in La caduta del 2004. E non si può non pensare che l’ultimo ruolo è stato in La casa di Jack di Lars von Trier, di prossima uscita, dove è consulente spirituale di un serial killer, guidandolo nell’aldilà come un dantesco Virgilio. Temperamento romantico tra i più profondi e radicati nel vecchio continente, il Bruno Ganz se ne è andato a 77 anni nella sua Zurigo, dove era nato il 22 marzo del 1941, nella notte di venerdì a causa di una malattia che l’aveva colpito mesi fa. Il bilingue artista svizzero tedesco, intellettuale amante e complice di tormentati classici (Empedocle, Prometeo, Baccanti) e di altrettanto complicati contemporanei, aveva in tasca e negli occhi la forza dei sogni che gli permetteva di passare da un memorabile Amleto al Principe di Homburg al Peer Gynt, lavorando con massimi registi come Peter Stein e Klaus Michael Gruber.
Nato da un operaio svizzero e madre italiana, aveva diverse nazionalità artistiche, tedesco di nascita e formazione culturale, basti pensare al conte russo innamorato di Edith Clever nella Marchesa von O. di Kleist diretto da Rohmer, aveva aggiunto l’amore per l’italia in Pane e tulipani di Soldini nel ruolo di un timido cameriere che riaccende un sogno d’amore a Venezia, città di cui si era innamorato. E in Italia aveva lavorato con Giuseppe Bertolucci in Oggetti smarriti, un film d’amore esistenziale alla Stazione di Milano con la Melato, con la Huppert Signora delle camelie per Bolognini, nella serie tv su Coppi (era l’allenatore non vedente) e impersonando Tiziano Terzani in un film biografico cui ha regalato la misura di una profonda commozione, La fine è il mio inizio.
Ma se l’italia era un aperto capitolo di ricambiato amore, Ganz ebbe l’imprimatur del grande teatro berlinese anni 70 formando con Stein il mitico «Schaubuhne», dove cambiava anima e abito tra Gorkij, Ibsen, Brecht, Hölderlin, fino a Botho Strauss poi tornando a Eschilo. Attore intellettuale, sapeva essere vicino al pubblico che ne riconosceva la sua verità interiore trasposta in molti personaggi, da Wenders in poi, anche con un pizzico di humour.
Angelo disarmato di fronte al disamore del mondo, in Il cielo sopra Berlino e poi nel sequel Così lontano così vicino era stato complice del cammino spirituale del regista con cui aveva cominciato la carriera in pieno noir (L’amico americano).
Il nuovo cinema tedesco di Handke, Schlöndorff, Herzog, la Germania del dopoguerra, l’annuncio della desolazione di un mondo che entrava in un’altra dimensione, dove era meglio essere un angelo innamorato e invisibile. Insomma la crisi dei rapporti visti dall’angolo espressivo di un attore essenziale, sfaccettato ma sempre europeo, un po’ come Albert Finney morto da poco.
Onorato da premi ovunque, dal David di Donatello al Pardo del Festival di Locarno, Ganz non si fece mai sedurre dalle sirene del cinema americano (solo i Ragazzi venuti dal Brasile) ma accettò sua sponte scegliendo le occasioni di rilancio dello spettacolo intimista.
Teneva Amleto come bussola e il grande teatro come riferimento, alternando tragedie e commedie dello spirito (L’eternità non è un giorno, testamento di Anghelopoulos) senza il sovrappeso retorico ma con naturale, profonda leggerezza, la stessa con cui sapeva passare da Goethe al nonno di Heidi nella fiaba svizzera rifatta nel 2015: perché in fondo ogni storia, con quegli occhi, era degna d’essere raccontata.