’Ndrangheta da romanzo. Ma sembra vera
Interessi economici e il codice della violenza in «Marzo per gli agnelli» di Mimmo Gangemi (Piemme)
«No, direi di no. Non almeno negli ultimi trent’anni. Il critico supercilioso, convinto di dover preservare un patrimonio messo a rischio dalle moltitudini piccoloborghesi e plebee, incide poco nelle scelte del pubblico e ancor meno nelle strategie editoriali, che tentano legittimamente di intercettare quelle medesime moltitudini. Il critico schifiltoso si sforza di essere selettivo, autorevole, di chiudersi nelle riviste sovvenzionate e nelle università. Ma con il bel risultato di sguarnire una postazione decisiva, dove alloggiano i romanzi più letti».
Sulla base dei suoi esempi, si possono individuare delle vistose oscillazioni o variazioni del gusto popolare?
«Più che di gusto popolare, parlerei di gusto interclassista plebiscitario. Un gusto difficilissimo da ricomprendere in ogni sua manifestazione. Certo in periodo mussoliniano abbondava nel narrato la figura dell’eroe ardito e passionale, aristocratico, circonfuso di gesta e di blasone (penso agli aviatori di Liala); mentre nel dopoguerra dilaga l’eroe popolare, sulla falsariga di Peppone e don Camillo. Però poi si torna a salire, e il Panagulis della Fallaci reinterpreta nei modi l’eroe tragico, antiautoritario ma insieme ostile alla “piovra” democratica. C’è qui un nodo decisivo: bisogna percepirsi fuori dai flussi prevalenti, per costituire un vero e sia pure momentaneo mainstream».
Venendo al linguaggio. Come si sviluppa il rapporto con il parlato? La lingua, in una letteratura tradizionalmente iperletteraria come la nostra, che ruolo gioca?
«Esiste una linea di faglia, nel complesso dei best seller novecenteschi. C’è un prima e un dopo D’annunzio. Prima, un’immagine magari molto addomesticata di sublime dominava la scena: vedi Da Verona e Liala. Poi, alla svolta degli anni Quaranta-sessanta, subentra una prosa media e talora colloquiale: i giovanilismi rosacei della Gasperini consuonano in questo senso con la sbrigatività violenta e comunicativa di Scerbanenco. Camilleri, e magari Niffoi, Fois, fanno un’altra cosa ancora: prendono il dialetto-lingua, cioè il siciliano e il sardo, e se ne fanno un’arma contro l’involgarimento neostandard. Come dire, anche a proposito dello stile ci sono tappe e variabili infinite».
Non trova che, a partire più o meno dagli anni Novanta, la distinzione tra letteratura di consumo e letteratura diciamo «alta» sia diventata sempre meno netta?
«La sovversione o rimescolamento delle gerarchie è un fenomeno di lungo corso, risale quantomeno alle avanguardie storiche e alla susseguente civiltà di massa. Qualcosa di più preciso si può dire però riguardo al sistema letterario nel suo insieme, utilizzando le categorie messeci a disposizione magistralmente da Vittorio Spinazzola. Nelle ultime decadi, è caduta la fascia alta del sistema o letteratura sperimentale. Sul versante basso si mantiene una certa quota di letteratura marginale, dai romanzetti Harmony ai conati scritturali sul web».
E nelle fasce intermedie?
«È lì, tra letteratura istituzionale e letteratura di intrattenimento, che la riduzione delle distanze si è fatta più vistosa. In un tempo non lontano distinguere era facile, tutto sommato: Sciascia o la Morante rappresentavano il prestigio, Chiara o Bevilacqua lo svago disimpegnato. Oggi i due livelli si avvicinano, si compenetrano: accolgono a un medesimo titolo Michele Mari, Paolo Cognetti, Elena Ferrante, Roberto Saviano e Donato Carrisi. Distinguere, a queste condizioni, sembrerebbe un azzardo. Camilleri, per dirne soltanto uno: dove lo mettiamo, nella letteratura istituzionale o in quella di intrattenimento? Io con la serie dedicata a Montalbano l’ho messo nel romanzo di intrattenimento (e così ho fatto con la Fallaci). Non credo che siano tutti d’accordo». ● Fausta Squatriti (Milano, 1941: qui sopra) espone sino al 15 marzo alla Galleria Bianconi di Milano (via Lecco 20), una serie di quadri di grandi dimensioni, dipinti dal 1964 al 1967 e dedicati a La passeggiata di Buster Keaton di Federico García Lorca (1898-1936: in alto). Scritta a Madrid nella Residenza degli Studenti e pubblicata a Granada nel 1927 sulla rivista «Il Gallo», la pièce si rifà ai modi dell’avanguardia simbolicosurrealista. Il personaggio dell’attore del muto, inoltre, ha una sottile vena di satira antiamericana ● Marzo per gli agnelli di Mimmo Gangemi (Santa Cristina d’aspromonte, Reggio Calabria, 1950) è edito da Piemme (pp. 288,
17,50)
La famiglia del penalista Giorgio Marro è colpita negli affetti più cari dal destino crudele che si è portato via il piccolo Luca e immobilizzato a letto Enrico, vittime di un incidente con la moto che il padre aveva regalato al maggiore dei due figli. Il senso di colpa arrugginisce la vita di Marro. La sua esistenza, però, deve fare i conti oltre che con il dramma familiare, con vicende personali che s’intersecano con gli interessi di alcuni boss di ’ndrangheta: Cicco Survara e zi’ Masi. I due, interessati alla realizzazione di una struttura ricettiva, vogliono acquistare alcuni terreni dell’avvocato che sporgono a picco sul mare dello Stretto. Giorgio Marro rifiuta la consistente offerta. Da quel momento la sua vita diventa un inferno. È vittima di rappresaglie.
Gli ultimi decenni
«È caduta la fascia alta del sistema, la letteratura sperimentale. Ma resta una certa quota di letteratura marginale»
Il protagonista del nuovo romanzo di Mimmo Gangemi, Marzo per gli agnelli (Piemme), si guarda bene però dal denunciare. Non per paura: «La paura ce l’ha chi ha da perderci. Io quello che avevo da perdere l’ho già perso». La realizzazione del villaggio turistico finisce per mettere una contro l’altra le due famiglie di ’ndrangheta del luogo, pronti a scannarsi dopo l’intervento della magistratura che vuole vederci chiaro su quel progetto. E nel fiutare la speculazione, il magistrato sequestra l’area e i capitali della società prestanome messa a garanzia dell’opera e indaga la politica locale.
I Survara, cosca moderna e intraprendente, più esposti finanziariamente, ci rimettono l’osso del collo, mentre Zi’ Masi, capobastone scaltro che lega alla modernità dell’onorata Società il vecchio codice d’onore, riesce a salvare i suoi patrimoni. Quanto basta per renderlo un morto che cammina. Il vecchio boss, infatti, cade sotto i colpi dei Survara ed è l’inizio della faida che Mimmo Gangemi (autore tra l’altro di Il giudice meschino e La signora di Ellis Island, entrambi pubblicati da Einaudi Stile libero) descrive con espressioni che illuminano l’ambiente rurale e arcaico, modello inequivocabile di una triste realtà ancora esistente in alcune aree della Calabria. Dove ogni sgarbo pesa e dev’essere lavato con il sangue.
L’avvocato Marro, nel racconto di Gangemi, diventa pedina e nel contempo ostacolo delle due famiglie di ’ndrangheta. Finirà per pentirsi e prende le difese di una delle cosche, giustificandosi con i legami professionali che aveva avuto nel passato. Il pentimento finisce però per ingabbiare e consumare ancor di più la sua anima...