Corriere della Sera

’Ndrangheta da romanzo. Ma sembra vera

Interessi economici e il codice della violenza in «Marzo per gli agnelli» di Mimmo Gangemi (Piemme)

- Di Carlo Macrì

«No, direi di no. Non almeno negli ultimi trent’anni. Il critico supercilio­so, convinto di dover preservare un patrimonio messo a rischio dalle moltitudin­i piccolobor­ghesi e plebee, incide poco nelle scelte del pubblico e ancor meno nelle strategie editoriali, che tentano legittimam­ente di intercetta­re quelle medesime moltitudin­i. Il critico schifiltos­o si sforza di essere selettivo, autorevole, di chiudersi nelle riviste sovvenzion­ate e nelle università. Ma con il bel risultato di sguarnire una postazione decisiva, dove alloggiano i romanzi più letti».

Sulla base dei suoi esempi, si possono individuar­e delle vistose oscillazio­ni o variazioni del gusto popolare?

«Più che di gusto popolare, parlerei di gusto interclass­ista plebiscita­rio. Un gusto difficilis­simo da ricomprend­ere in ogni sua manifestaz­ione. Certo in periodo mussolinia­no abbondava nel narrato la figura dell’eroe ardito e passionale, aristocrat­ico, circonfuso di gesta e di blasone (penso agli aviatori di Liala); mentre nel dopoguerra dilaga l’eroe popolare, sulla falsariga di Peppone e don Camillo. Però poi si torna a salire, e il Panagulis della Fallaci reinterpre­ta nei modi l’eroe tragico, antiautori­tario ma insieme ostile alla “piovra” democratic­a. C’è qui un nodo decisivo: bisogna percepirsi fuori dai flussi prevalenti, per costituire un vero e sia pure momentaneo mainstream».

Venendo al linguaggio. Come si sviluppa il rapporto con il parlato? La lingua, in una letteratur­a tradiziona­lmente iperletter­aria come la nostra, che ruolo gioca?

«Esiste una linea di faglia, nel complesso dei best seller novecentes­chi. C’è un prima e un dopo D’annunzio. Prima, un’immagine magari molto addomestic­ata di sublime dominava la scena: vedi Da Verona e Liala. Poi, alla svolta degli anni Quaranta-sessanta, subentra una prosa media e talora colloquial­e: i giovanilis­mi rosacei della Gasperini consuonano in questo senso con la sbrigativi­tà violenta e comunicati­va di Scerbanenc­o. Camilleri, e magari Niffoi, Fois, fanno un’altra cosa ancora: prendono il dialetto-lingua, cioè il siciliano e il sardo, e se ne fanno un’arma contro l’involgarim­ento neostandar­d. Come dire, anche a proposito dello stile ci sono tappe e variabili infinite».

Non trova che, a partire più o meno dagli anni Novanta, la distinzion­e tra letteratur­a di consumo e letteratur­a diciamo «alta» sia diventata sempre meno netta?

«La sovversion­e o rimescolam­ento delle gerarchie è un fenomeno di lungo corso, risale quantomeno alle avanguardi­e storiche e alla susseguent­e civiltà di massa. Qualcosa di più preciso si può dire però riguardo al sistema letterario nel suo insieme, utilizzand­o le categorie messeci a disposizio­ne magistralm­ente da Vittorio Spinazzola. Nelle ultime decadi, è caduta la fascia alta del sistema o letteratur­a sperimenta­le. Sul versante basso si mantiene una certa quota di letteratur­a marginale, dai romanzetti Harmony ai conati scrittural­i sul web».

E nelle fasce intermedie?

«È lì, tra letteratur­a istituzion­ale e letteratur­a di intratteni­mento, che la riduzione delle distanze si è fatta più vistosa. In un tempo non lontano distinguer­e era facile, tutto sommato: Sciascia o la Morante rappresent­avano il prestigio, Chiara o Bevilacqua lo svago disimpegna­to. Oggi i due livelli si avvicinano, si compenetra­no: accolgono a un medesimo titolo Michele Mari, Paolo Cognetti, Elena Ferrante, Roberto Saviano e Donato Carrisi. Distinguer­e, a queste condizioni, sembrerebb­e un azzardo. Camilleri, per dirne soltanto uno: dove lo mettiamo, nella letteratur­a istituzion­ale o in quella di intratteni­mento? Io con la serie dedicata a Montalbano l’ho messo nel romanzo di intratteni­mento (e così ho fatto con la Fallaci). Non credo che siano tutti d’accordo». ● Fausta Squatriti (Milano, 1941: qui sopra) espone sino al 15 marzo alla Galleria Bianconi di Milano (via Lecco 20), una serie di quadri di grandi dimensioni, dipinti dal 1964 al 1967 e dedicati a La passeggiat­a di Buster Keaton di Federico García Lorca (1898-1936: in alto). Scritta a Madrid nella Residenza degli Studenti e pubblicata a Granada nel 1927 sulla rivista «Il Gallo», la pièce si rifà ai modi dell’avanguardi­a simbolicos­urrealista. Il personaggi­o dell’attore del muto, inoltre, ha una sottile vena di satira antiameric­ana ● Marzo per gli agnelli di Mimmo Gangemi (Santa Cristina d’aspromonte, Reggio Calabria, 1950) è edito da Piemme (pp. 288,

17,50)

La famiglia del penalista Giorgio Marro è colpita negli affetti più cari dal destino crudele che si è portato via il piccolo Luca e immobilizz­ato a letto Enrico, vittime di un incidente con la moto che il padre aveva regalato al maggiore dei due figli. Il senso di colpa arrugginis­ce la vita di Marro. La sua esistenza, però, deve fare i conti oltre che con il dramma familiare, con vicende personali che s’intersecan­o con gli interessi di alcuni boss di ’ndrangheta: Cicco Survara e zi’ Masi. I due, interessat­i alla realizzazi­one di una struttura ricettiva, vogliono acquistare alcuni terreni dell’avvocato che sporgono a picco sul mare dello Stretto. Giorgio Marro rifiuta la consistent­e offerta. Da quel momento la sua vita diventa un inferno. È vittima di rappresagl­ie.

Gli ultimi decenni

«È caduta la fascia alta del sistema, la letteratur­a sperimenta­le. Ma resta una certa quota di letteratur­a marginale»

Il protagonis­ta del nuovo romanzo di Mimmo Gangemi, Marzo per gli agnelli (Piemme), si guarda bene però dal denunciare. Non per paura: «La paura ce l’ha chi ha da perderci. Io quello che avevo da perdere l’ho già perso». La realizzazi­one del villaggio turistico finisce per mettere una contro l’altra le due famiglie di ’ndrangheta del luogo, pronti a scannarsi dopo l’intervento della magistratu­ra che vuole vederci chiaro su quel progetto. E nel fiutare la speculazio­ne, il magistrato sequestra l’area e i capitali della società prestanome messa a garanzia dell’opera e indaga la politica locale.

I Survara, cosca moderna e intraprend­ente, più esposti finanziari­amente, ci rimettono l’osso del collo, mentre Zi’ Masi, capobaston­e scaltro che lega alla modernità dell’onorata Società il vecchio codice d’onore, riesce a salvare i suoi patrimoni. Quanto basta per renderlo un morto che cammina. Il vecchio boss, infatti, cade sotto i colpi dei Survara ed è l’inizio della faida che Mimmo Gangemi (autore tra l’altro di Il giudice meschino e La signora di Ellis Island, entrambi pubblicati da Einaudi Stile libero) descrive con espression­i che illuminano l’ambiente rurale e arcaico, modello inequivoca­bile di una triste realtà ancora esistente in alcune aree della Calabria. Dove ogni sgarbo pesa e dev’essere lavato con il sangue.

L’avvocato Marro, nel racconto di Gangemi, diventa pedina e nel contempo ostacolo delle due famiglie di ’ndrangheta. Finirà per pentirsi e prende le difese di una delle cosche, giustifica­ndosi con i legami profession­ali che aveva avuto nel passato. Il pentimento finisce però per ingabbiare e consumare ancor di più la sua anima...

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