Corriere della Sera

La battaglia delle due ministre sospese tra il Nord e il Sud Così si giocano il tutto per tutto

Sfida Stefani-lezzi nella partita dell’autonomia regionale

- di Fabrizio Roncone

Poi vedremo come finirà questa storia dell’autonomia chiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia-romagna (le posizioni nel dibattito sono, a stringere, due: i governator­i del Nord, sostenuti dalla Lega, sostengono che a guadagnarc­i sarebbe tutto il Paese; a molti altri governator­i, su cui fanno sponda i 5 Stelle, la faccenda sembra invece solo una secessione per ricchi, pensata dai ricchi).

Questione delicata, rischiosa, forte.

Intanto però colpisce molto che Matteo Salvini e Luigi Di Maio («Giggino — spiegano i suoi, che si ostinano a chiamarlo così — dopo averne ovviamente parlato con Davide Casaleggio») l’abbiano affidata, almeno sul piano mediatico, a due ministre. Esatto: a due donne. La Lega schiera Erika Stefani, titolare del dicastero degli Affari regionali e delle Autonomie. Il Movimento, Barbara Lezzi, che guida il ministero per il Sud.

Bene, due donne: e questa è già una buona notizia che piomba dentro certe atmosfere parlamenta­ri sempre ancora troppo maschilist­e se non addirittur­a misogine; del resto, se provate a farvi un giro su Google, troverete ampia letteratur­a sul fatto che la Stefani, per dire, sarebbe stata eletta «Miss Senato».

Il punto è un altro: come affrontano una partita così delicata le due ministre?

Diciamo subito che per entrambe si tratta di una grandiosa occasione politica.

La Lezzi è un po’ alla sua partita finale.

La sua biografia è ricca, ed eloquente: 46 anni, nel 1991 si diploma all’istituto tecnico per periti aziendali di Lecce, per vent’anni lavora in una ditta specializz­ata nelle forniture per orologi — «Ma chi ha reso l’italia il fanalino di coda in Europa? I competenti? I preparati?» — nel 2013, quando viene eletta al Senato con i grillini, si mette in aspettativ­a e vola a Roma, finendo poco dopo sui giornali per aver assunto come assistente parlamenta­re la figlia del suo compagno; nel 2016 diventa mamma del piccolo Cristiano Attila; da vicepresid­ente della commission­e Bilancio di Palazzo Madama pubblica un video su Facebook in cui spiega che il Pil, nel secondo trimestre 2017, è aumentato «perché ha fatto molto caldo» e tanti italiani sono corsi ad accendere i condiziona­tori (trovate tutto su Youtube: un minuto e diciotto secondi francament­e strepitosi).

Va bene: e poi? Poi la Lezzi, alle scorse politiche, torna in Puglia e, dopo aver strapazzat­o un vecchio squalo come Massimo D’alema e una tosta come Teresa Bellanova, conquista oltre 100 mila preferenze. Come fa? Facile. Butta lì due gigantesch­e promesse: chiuderemo l’ilva e impediremo la costruzion­e del Tap (quel fuoriclass­e di Alessandro Di Battista, sceso a darle una mano, mettendo su uno sguardo piacionesc­o dei suoi, addirittur­a urla: «Lo blocchiamo in 15 giorni!»). Sapete com’è finita. L’ilva è aperta e il Tap si farà. È evidente che su questa storia delle autonomie — su cui i grillini frenano assai, avendo nel Meridione il loro bacino di voti più ampio — la Lezzi si gioca faccia, e destino. Si gioca tuttavia molto anche la ministra Stefani («Potete chiamarmi ministra o ministro, cambia poco: sono i risultati che contano»). Vicentina, 48 anni, avvocato, lunga gavetta politica nel leghismo duro e puro — okay, va bene: «gavetta» è termine desueto, ma resta promettent­e e pieno di fascino — in Parlamento e al governo è rimasta fuori dai giochi esclusivam­ente perché nel suo partito i giochi li decide e fa solo Salvini. Quindi, appunto: questa è la sua occasione. «Il progetto di rendere autonome le Regioni — dice perciò la Stefani — è nel contratto con il Cinque Stelle: e i contratti, per quanto ne so, si rispettano».

La Lezzi, gelida: «In realtà non c’è ancora alcuna intesa nel governo». Poi attraversa il Transatlan­tico di Palazzo Madama, il parquet che scricchiol­a, il passo risoluto, l’aria risoluta, vi faccio vedere chi sono, sono quella che portò in aula un apriscatol­e, perché — diceva Grillo — avremmo dovuto aprire il Parlamento come una scatola di tonno.

È andata, finora, un po’ diversamen­te.

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