Corriere della Sera

CARLO PETRINI

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La grande intuizione di Pasolini.

«E di Nuto Revelli. Ma senza andare lontano, cito un amico, Bartolo Mascarello, grande produttore di barolo: lui era di sinistra ma aveva un forte spirito conservato­re. Forse è per questo che noi di Slow Food siamo stati attaccati spesso dalla stessa sinistra, che ci prendeva in giro ironizzand­o sul “piccolo mondo antico”».

Quindi prima o poi le campagne diventeran­no tutte leghiste?

«Non penso, perché accanto allo spirito conservato­re i contadini nutrono un’altra natura, più forte: lo spirito di solidariet­à. Dove mangiano due mangiano pure quattro: l’accoglienz­a, nelle campagne, non si discute. Ecco perché penso che sia proprio da questo spirito che l’economia mondiale debba trarre ispirazion­e. E non è un caso che il Papa, che ha origini contadine piemontesi, lo abbia capito. Peraltro mi hanno detto che lui ha intenzione di indire un sinodo proprio sull’economia».

Però concetti come «decrescita felice» — che in qualche modo lambiscono la natura di Slow Food — sono stati presi e in certi casi trasformat­i in slogan discutibil­i, non crede?

«Sì, ma continuare a dire che questo modello economico così com’è funziona e fa bene è un errore. Dall’altra parte, è un errore pensare che la “decrescita” sia una soluzione. Questo sistema produttivo, e parlo per l’alimentare che conosco bene, è fortemente squilibrat­o: chi produce guadagna poco, chi consuma spende molto e in mezzo c’è chi spende poco e guadagna molto. In Messico il cinque per cento dei contadini oggi fa la fame, ed è un fatto storico. Se incentivas­simo la produzione locale, se proteggess­imo la biodiversi­tà e se scegliessi­mo meglio che cosa consumare, forse le cose migliorere­bbero. Un modello, questo, che si può applicare anche ad altri settori».

È con questo paradigma che ha conquistat­o anche il principe Carlo d’inghilterr­a?

(ride) «Ma no, una volta lui venne a Terra Madre e ci trovammo in grande sintonia. La sera poi accettò di venire con noi in un’osteria di Verduno, qua vicino. Il suo staff era stato rigoroso: il protocollo di Sua Altezza prevede che alle dieci e mezza di sera lui stia a letto e bla bla bla. Morale: all’una di notte stavamo ancora a tavola a ridere e a mangiare. Alla fine mi disse: “Petrini, questa è stata una delle serate più belle della mia vita”. Gli risposi: «Maestà, ma che vita avete fatto finora?”».

Sembra una di quelle zingarate che facevate con quelli del Club Tenco: Conte, Guccini...

«A suo modo pure quella era politica: Amil- Chi è

● Nato a Bra nel 1949, Carlo Petrini è stato fondatore e presidente di Arci Gola, divenuta nel 1989 l’associazio­ne internazio­nale Slow Food; Petrini ha ideato il Salone del Gusto di Torino, l’università di Scienze gastronomi­che di Pollenzo e la rete di Terra Madre. Nel 2004 la rivista «Time» gli attribuito il titolo di Eroe Europeo del nostro tempo nella categoria «Innovator»

● Tra i libri: Cibo e libertà, Biodiversi con Stefano Mancuso e Slow Food. Storia di un’utopia possibile con Gigi Padovani (tutti Giunti/ Slow Food) care Rambaldi, grande uomo di musica, il primo a concepire una rassegna canora a Sanremo, venne messo nell’ombra piano piano dalla grande industria discografi­ca e così fondò un club dedicato alla canzone d’autore. Cioè a una nicchia di qualità, dove la musica era uno scambio di idee, cultura, amicizia. Torniamo sempre lì: il piccolo, il buono, il giusto».

Ma i cardini della sua visione sono sempre proiettati verso un orizzonte internazio­nale, mai chiuso e autarchico. In tempi di sovranismo militante come questi, come si sente?

«Penso che quando un Paese rinuncia al dialogo e si isola in una forma di orgoglioso sovranismo si illude di diventare più forte. In realtà la Storia insegna che questo Paese finirà dilaniato in una guerra interna tra bande».

Un altro concetto importanti­ssimo ma diventato uno slogan è «aiutiamoli a casa loro».

«Vero, è stato distorto. L’africa è il continente dove nei prossimi decenni si giocherann­o le grandi partite internazio­nali. Se oggi paghiamo la Libia, vuol dire che non abbiamo fatto abbastanza per gli africani, vuol dire che alla fine dei conti adottiamo sempre lo stesso schema colonialis­tico. Non dobbiamo mandare derrate alimentari laggiù, ma scommetter­e sui giovani africani che hanno potenziali­tà enormi. E aiutarli a svilupparl­e: se abiti a trecento chilometri da Nairobi, è dura, anche se sei un genio. Purtroppo oggi manca una visione di empatia, di solidariet­à con gli altri. Vedo muri, solo muri, pochissimi ponti».

Petrini, lei a giugno compirà settant’anni. Quando è stata l’ultima volta che ha pianto?

«Negli ultimi tempi piango per ogni piccolezza, sa? Ma rido anche tanto. È che mi sento amato (e con la testa indica la cucina dove la sorella Chiara è una presenza invisibile e pronta a far apparire un caffè, un biscotto, un saluto, ndr). Sono sempre stato molto amato e penso di essere stato un uomo fortunato».

Papa Francesco l’ha convertita alla fede?

«Ma no, lui ridendo dice che sono un agnostico pio e ha perfettame­nte ragione».

Che cosa la diverte oggi?

«Con i miei amici vado ancora a “cantare le uova”: prima di Pasqua si va per cascine a cantare e a salutare le famiglie dei contadini che in cambio ti danno le uova. Poi ci si fa una frittata e si mangia tutti insieme. Ecco come è nato Slow Food. Ecco perché mi viene da ridere quando pensano che dietro ci sia stato chissà quale business plan. Esageròma nen».

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