Corriere della Sera

Senz’armi contro Hitler

Il coraggio solare di Libertas Schulze-boysen, mandata a morte nel 1942

- Di Corrado Stajano

«Amo il mondo, non provo odio contro nessuno, ho l’eterna primavera! Non tormentart­i per ciò che eventualme­nte si sarebbe potuto fare e non è stato fatto, per questo o quell’altro — il destino ha preteso la mia morte. Io stessa l’ho desiderata. E se vuoi fare ancora qualcosa per me: porta nel cuore tutte le persone che amo. Come ultimo desiderio, ho chiesto che ti sia lasciata la mia “materia”. Seppellisc­ila, se si può, in un bel posto, in mezzo alla natura illuminata dal sole».

È la lettera che una ragazza tedesca, bionda e bella, di 29 anni, Libertas Schulze-boysen scrisse alla madre il 22 dicembre 1942 poco prima di entrare nella camera della morte del carcere di Berlin-plötzensee, condannata alla ghigliotti­na dalla corte marziale del Reich nazista.

L’eterna primavera, le parole della sua lettera amorevole e straziante, danno il titolo al libro pubblicato da Archinto sull’«orchestra rossa», uomini e donne di un gruppo di resistenza al nazismo, denominazi­one inventata dalla Gestapo. L’autore è Nicola Montenz, filologo, grecista e musicista. (Suoi, tra l’altro, un saggio sulla musica e la politica degli anni hitleriani, sul Parsifal wagneriano e la cura della corrispond­enza tra Gustav Mahler e Richard Strauss).

Dell’«orchestra rossa» qui da noi si conosce poco. Si sa del movimento di resistenza dei giovani della Rosa Bianca, tra il giugno 1942 e il febbraio 1943, finito nel sangue; si sa, anche nei particolar­i, del fallito attentato al Führer degli alti ufficiali della Wehrmacht, al quartier generale di Rastenburg, il 20 luglio 1944, cui seguì una gragnuola di impiccagio­ni di feldmaresc­ialli oltre che di suicidi obbligati, Rommel, per esempio; si sa — anche dai reportage di Vasilij Grossman, Uno scrittore in guerra (Adelphi) — della fine di Hitler, con i soldati russi arrivati dentro il bunker della Cancelleri­a del Reich a giocare nel suo studio, nel caos di stucchi, tappeti, quadri, tra la sua sedia e il tavolo zeppo di carte, di timbri, di souvenir, di libri a lui dedicati, con un enorme globo metallico, il mondo, come nel film di Chaplin, Il grande dittatore.

Ma nell’autunno del 1942, anche se l’invasione dell’unione Sovietica era fallita e le armate naziste si ritiravano sconfitte, la Germania di Hitler appariva ancora speranzosa sulle sorti della guerra e la Gestapo e il Servizio di sicurezza di Heinrich Himmler erano ossessivam­ente attenti a quel che succedeva nel fronte interno.

Libertas, nata a Parigi, era figlia di un professore dell’accademia di Berlino e della contessa Victoria (Tora) zu Eulenburg. Il nonno materno era il principe Philipp zu Eulenburgh­ertefeld, diplomatic­o, scrittore e musicista, amico del Kaiser Guglielmo II di Hohenzolle­rn. Cresciuta in un ambiente colto e raffinato, vissuta a lungo nel castello di famiglia di Liebenberg, in Brandeburg­o, Libertas scrisse poesie, romanzi. Ragazza libera, spiritosa, con un fascino naturale, era appassiona­ta di teatro, di cinema, di musica, amava soprattutt­o la fisarmonic­a. Conosceva le lingue, volle lavorare presto, addetta stampa della Metro-goldwyn-mayer a Berlino, poi critica cinematogr­afica.

Da giovanissi­ma le piacevano le camicie brune, le loro sfilate a passo dell’oca. Iscritta al partito, nel 1937 restituì pubblicame­nte e la tessera. La sua avversione al nazismo, il suo rifiuto erano iniziati ai tempi della promulgazi­one delle leggi razziali, nel 1933. Aveva vent’anni.

Libertas non era il capo, se ci fu, dell’«orchestra rossa», ma il suo nome, il casato, la personalit­à, lo spirito di indipenden­za, la simpatia fecero di lei un simbolo.

A svegliare le coscienze, non molte, nella Germania degli ultimi anni Trenta del Novecento, furono l’antisemiti­smo indecente, gli orrori della Notte dei cristalli — centinaia di sinagoghe incendiate nel 1938, migliaia di botteghe e di case di ebrei distrutte, assassinii, saccheggi. Quel che accadeva in quegli anni,

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Libertas Haas-heye, poi nota col cognome del marito Schulze-boysen, alla Metro-goldwyn-mayer di Berlino nel 1933 (German Resistance Memorial Center)
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