L’appendicite si deve sempre operare?
Il trattamento «conservativo» è possibile a determinate condizioni e consiste in terapia antibiotica e monitoraggio molto attento
È la quota di persone che vanno incontro nella propria vita a un attacco di appendicite.
In Italia sono 55-60 mila ogni anno gli interventi di asportazione dell’appendice eseguiti. La degenza dopo un’intervento di appendicite è di un paio di giorni ma esistono casi anche operati in day surgery, nei quali il paziente viene dimesso nella stessa giornata.
L’appendicite si deve sempre operare? Lo chiedono (insistentemente) molti lettori alla posta di Corriere Salute. Abbiamo allora rivolto la domanda a Luigi Boni, direttore della Chirurgia Generale del Policlinico di Milano e professore ordinario all’università degli Studi di Milano.
Prima però chiariamo: che cos’è l’appendicite? Si tratta di un’infezione dell’appendice, piccola struttura tubolare che ha origine nella parte inferiore dell’intestino cieco. In genere la causa è un’ostruzione, di solito dovuta al ristagno di materiale ingerito oppure, nella prima infanzia, alla presenza di abbondante tessuto linfatico legata, a sua volta, a infezioni (come mononucleosi, morbillo, gastroenteriti, infezioni respiratorie). Altre possibili ragioni comprendono intasamento da corpi estranei (noccioli di uva, ciliegie, ecc.), parassiti intestinali, solo talvolta tumori.
«Per venire alla domanda dei vostri lettori — spiega il professor Boni — va detto che nel corso degli ultimi anni molti studi hanno dimostrato la possibilità di optare per un trattamento “conservativo”, cioè non chirurgico, di un’appendicite acuta. Bisogna mantenere il paziente a digiuno e somministrare antibiotici per via endovenosa monitorando il quadro clinico e gli esami del sangue per controllare se il trattamento è efficace o si debba invece procedere all’intervento chirurgico. La strategia conservativa nell’appendicite acuta va però riservata solo ai casi di forme iniziali e lievi e non è indicata in caso di peritoniti diffuse (infiammazioni dei peritoneo, la membrana che avvolge gli organi addominali, ndr); inoltre, va considerato che una quota di casi non irrilevante potrà andare incontro a recidive e richiedere successivamente l’intervento. Di conseguenza è necessaria una valutazione caso per caso prima di decidere quale trattamento sia più indicato».
È vero che oggi si tende comunque a operare meno rispetto al passato?
«In generale si opera meno — conferma Boni —. Il primo motivo è che si è ridotto il numero delle cosiddette appendiciti “bianche”, cioè dei casi in cui si operava ma poi il riscontro intra-operatorio ed anatomopatologico (l’esame del pezzo operatorio rimosso) era negativo. La capacità di fare diagnosi di appendicite è migliorata e si evitano interventi inutili. Il secondo motivo è legato, come detto, alla possibilità di trattare forme iniziali con antibiotici».
Quali sono i campanelli d’allarme cui prestare attenzione?
«Innanzitutto dolore nella regione peri-ombelicale che, nell’arco di 12-24 ore, si porta verso la sede dell’appendice (fianco destro in basso). Il fastidio aumenta con tosse, pressione, respiro profondo. Nausea, vomito e inappetenza sono presenti in misura variabile, come diarrea o stitichezza. C’è la febbre (di solito non oltre i 38°C). In casi meno caratteristici il dolore può essere localizzato in sedi anche molto distanti e simulare una colica biliare o renale destra o una patologia ginecologica o vescicale (con sensibilità anche nella zona lombare o a tutto il fianco destro)».
Che cosa bisogna fare se si sospetta un’infiammazione dell’appendice?
«Se con il passare delle ore il dolore non accenna a diminuire, neanche a digiuno o dopo l’evacuazione, è meglio rivolgersi al medico molto tempestivamente per scongiurare che l’appendice infiammata possa rompersi e il materiale in essa contenuto si riversi nell’addome provocando una peritonite: la complicanza più grave che, se non trattata in tempo, può essere letale».
Come si arriva alla diagnosi pre-operazione? «Nei quadri tipici la diagnosi si basa sulla valutazione dei sintomi riferiti dal paziente o accentuati da specifiche manovre mediche (come i segni di Blumberg o di Rovsing, si veda il grafico, ndr), in genere associati all’esito di alcuni esami del sangue (rialzo dei globuli bianchi). Quando il quadro generale è meno chiaro si ricorre all’ecografia, che permette anche di escludere eventuali calcoli renali o biliari e alcune patologie ginecologiche (gravidanza extrauterina o cisti) che possono provocare sintomi simili. Nei casi dubbi può essere preso in considerazione il ricorso alla Tac».
Come viene condotto l’intervento di appendicectomia?
«Salvo casi particolari, deve essere mini-invasivo, cioè effettuato mediante impiego della laparoscopia. Esistono ormai diverse linee guida internazionali che confermano l’efficacia di questa tecnica per il trattamento dell’appendicite acuta, del tutto identica alla tecnica tradizionale laparotomica (intervento “aperto” tradizionale, ndr), ma con sensibili vantaggi in termini di riduzione del dolore post-operatorio, delle complicanze immediate (infezioni) e tardive (ernie incisionali) e in generale una più rapida ripresa delle attività. Con questa metodica, di norma la degenza post-operatoria è di un paio di giorni, anche se di recente sono state pubblicate casistiche incoraggianti anche per il trattamento in regime di day surgery. La laparoscopia oltre che tecnica terapeutica,
Laparoscopia Consente di ridurre il dolore e il pericolo di eventuali infezioni. La ripresa è più rapida
inoltre, ha in sé un importante valore diagnostico, permettendoci di ispezionare l’intera cavità addominale per capire la reale causa dei sintomi del paziente. In particolare, consente di accertare patologie ginecologiche (come l’endometriosi), o infiammatorie intestinali e aderenze non sempre facili da identificare con la diagnostica tradizionale».