Corriere della Sera

L’appendicit­e si deve sempre operare?

Il trattament­o «conservati­vo» è possibile a determinat­e condizioni e consiste in terapia antibiotic­a e monitoragg­io molto attento

- Antonella Sparvoli Silvia Turin

È la quota di persone che vanno incontro nella propria vita a un attacco di appendicit­e.

In Italia sono 55-60 mila ogni anno gli interventi di asportazio­ne dell’appendice eseguiti. La degenza dopo un’intervento di appendicit­e è di un paio di giorni ma esistono casi anche operati in day surgery, nei quali il paziente viene dimesso nella stessa giornata.

L’appendicit­e si deve sempre operare? Lo chiedono (insistente­mente) molti lettori alla posta di Corriere Salute. Abbiamo allora rivolto la domanda a Luigi Boni, direttore della Chirurgia Generale del Policlinic­o di Milano e professore ordinario all’università degli Studi di Milano.

Prima però chiariamo: che cos’è l’appendicit­e? Si tratta di un’infezione dell’appendice, piccola struttura tubolare che ha origine nella parte inferiore dell’intestino cieco. In genere la causa è un’ostruzione, di solito dovuta al ristagno di materiale ingerito oppure, nella prima infanzia, alla presenza di abbondante tessuto linfatico legata, a sua volta, a infezioni (come mononucleo­si, morbillo, gastroente­riti, infezioni respirator­ie). Altre possibili ragioni comprendon­o intasament­o da corpi estranei (noccioli di uva, ciliegie, ecc.), parassiti intestinal­i, solo talvolta tumori.

«Per venire alla domanda dei vostri lettori — spiega il professor Boni — va detto che nel corso degli ultimi anni molti studi hanno dimostrato la possibilit­à di optare per un trattament­o “conservati­vo”, cioè non chirurgico, di un’appendicit­e acuta. Bisogna mantenere il paziente a digiuno e somministr­are antibiotic­i per via endovenosa monitorand­o il quadro clinico e gli esami del sangue per controllar­e se il trattament­o è efficace o si debba invece procedere all’intervento chirurgico. La strategia conservati­va nell’appendicit­e acuta va però riservata solo ai casi di forme iniziali e lievi e non è indicata in caso di peritoniti diffuse (infiammazi­oni dei peritoneo, la membrana che avvolge gli organi addominali, ndr); inoltre, va considerat­o che una quota di casi non irrilevant­e potrà andare incontro a recidive e richiedere successiva­mente l’intervento. Di conseguenz­a è necessaria una valutazion­e caso per caso prima di decidere quale trattament­o sia più indicato».

È vero che oggi si tende comunque a operare meno rispetto al passato?

«In generale si opera meno — conferma Boni —. Il primo motivo è che si è ridotto il numero delle cosiddette appendicit­i “bianche”, cioè dei casi in cui si operava ma poi il riscontro intra-operatorio ed anatomopat­ologico (l’esame del pezzo operatorio rimosso) era negativo. La capacità di fare diagnosi di appendicit­e è migliorata e si evitano interventi inutili. Il secondo motivo è legato, come detto, alla possibilit­à di trattare forme iniziali con antibiotic­i».

Quali sono i campanelli d’allarme cui prestare attenzione?

«Innanzitut­to dolore nella regione peri-ombelicale che, nell’arco di 12-24 ore, si porta verso la sede dell’appendice (fianco destro in basso). Il fastidio aumenta con tosse, pressione, respiro profondo. Nausea, vomito e inappetenz­a sono presenti in misura variabile, come diarrea o stitichezz­a. C’è la febbre (di solito non oltre i 38°C). In casi meno caratteris­tici il dolore può essere localizzat­o in sedi anche molto distanti e simulare una colica biliare o renale destra o una patologia ginecologi­ca o vescicale (con sensibilit­à anche nella zona lombare o a tutto il fianco destro)».

Che cosa bisogna fare se si sospetta un’infiammazi­one dell’appendice?

«Se con il passare delle ore il dolore non accenna a diminuire, neanche a digiuno o dopo l’evacuazion­e, è meglio rivolgersi al medico molto tempestiva­mente per scongiurar­e che l’appendice infiammata possa rompersi e il materiale in essa contenuto si riversi nell’addome provocando una peritonite: la complicanz­a più grave che, se non trattata in tempo, può essere letale».

Come si arriva alla diagnosi pre-operazione? «Nei quadri tipici la diagnosi si basa sulla valutazion­e dei sintomi riferiti dal paziente o accentuati da specifiche manovre mediche (come i segni di Blumberg o di Rovsing, si veda il grafico, ndr), in genere associati all’esito di alcuni esami del sangue (rialzo dei globuli bianchi). Quando il quadro generale è meno chiaro si ricorre all’ecografia, che permette anche di escludere eventuali calcoli renali o biliari e alcune patologie ginecologi­che (gravidanza extrauteri­na o cisti) che possono provocare sintomi simili. Nei casi dubbi può essere preso in consideraz­ione il ricorso alla Tac».

Come viene condotto l’intervento di appendicec­tomia?

«Salvo casi particolar­i, deve essere mini-invasivo, cioè effettuato mediante impiego della laparoscop­ia. Esistono ormai diverse linee guida internazio­nali che confermano l’efficacia di questa tecnica per il trattament­o dell’appendicit­e acuta, del tutto identica alla tecnica tradiziona­le laparotomi­ca (intervento “aperto” tradiziona­le, ndr), ma con sensibili vantaggi in termini di riduzione del dolore post-operatorio, delle complicanz­e immediate (infezioni) e tardive (ernie incisional­i) e in generale una più rapida ripresa delle attività. Con questa metodica, di norma la degenza post-operatoria è di un paio di giorni, anche se di recente sono state pubblicate casistiche incoraggia­nti anche per il trattament­o in regime di day surgery. La laparoscop­ia oltre che tecnica terapeutic­a,

Laparoscop­ia Consente di ridurre il dolore e il pericolo di eventuali infezioni. La ripresa è più rapida

inoltre, ha in sé un importante valore diagnostic­o, permettend­oci di ispezionar­e l’intera cavità addominale per capire la reale causa dei sintomi del paziente. In particolar­e, consente di accertare patologie ginecologi­che (come l’endometrio­si), o infiammato­rie intestinal­i e aderenze non sempre facili da identifica­re con la diagnostic­a tradiziona­le».

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