Corriere della Sera

L’USCITA DAL LIMBO

La svolta delle Regioni Soltanto un forte processo unificator­e può evitare il rischio, tutt’altro che remoto, di un sottosvilu­ppo permanente delle aree più disagiate

- Di Aldo Cazzullo

Il principale partito di opposizion­e è uscito dal limbo in cui si era rinchiuso da oltre due anni, dal 4 dicembre 2016; ed è una buona notizia, non tanto per il partito quanto per il Paese e tutto sommato anche per il governo; perché in democrazia c’è bisogno di un’opposizion­e. È questo il dato più significat­ivo di una domenica che non giustifica certo grandi entusiasmi.

Al momento la maggioranz­a degli italiani non guarda al Pd; guarda a Salvini. E le classi popolari che hanno abbandonat­o la sinistra per i Cinque Stelle non mostrano segni di voler tornare indietro; semmai tendono a spostarsi a destra. Eppure questo 3 marzo consegna se non altro un elemento di chiarezza.

La notte della sconfitta al referendum, il Pd entrò in una terra incognita dov’è rimasto troppo a lungo, in mano a leader dimezzati — prima Gentiloni, poi Martina —, senza riuscire a stare né con, né senza Renzi. In questi 27 mesi l’ex premier avrebbe fatto meglio, per sé e per i suoi, a prendere una distanza più netta dalla politica. Ma sarebbe ingeneroso non riconoscer­gli di aver rispettato il percorso delle primarie. Ora vedremo se saprà collaborar­e con il vincitore, rinunciand­o a progetti personali che i risultati di ieri non incoraggia­no.

Nell’ormai lontano 22 ottobre 2017 non si poteva certo supporre che il referendum consultivo appena tenutosi in Lombardia e Veneto per conseguire maggiore autonomia, potesse costituire un pericolo per la tenuta dell’attuale governo che, all’epoca, era difficile solo immaginare potesse essere costituito con un contratto tra due forze politiche non propriamen­te caratteriz­zate da affinità elettive. Le consultazi­oni, come è noto, hanno assegnato una ampia vittoria al «sì» anche se l’affluenza, soprattutt­o in Lombardia, non è stata quella sperata essendosi fermata al di sotto del 40%.

Nonostante la tempestivi­tà con la quale le Regioni interessat­e hanno dato avvio alla procedura per la definizion­e nel dettaglio delle modalità di trasferime­nto a loro carico delle venti materie di competenza concorrent­e e delle tre esclusive dello Stato, la questione è entrata nel vivo soltanto da poco tempo. Tuttavia, pur essendo verosimile che una maggiore autonomia possa produrre nell’immediato dei vantaggi per gli enti richiedent­i, il cui numero proprio per questa illusione ottica è in aumento, nel tempo sarebbe disastrosa per l’italia nel suo complesso se venisse attuata con le modalità funzionali e struttural­i richieste.

Per evitare equivoci interpreta­tivi è bene chiarire che non vi sono dubbi sul fatto che il modello centralist­ico di potere sia irrimediab­ilmente superato. Anzi, il ritardo di circa un ventennio per l’attuazione dell’ordinament­o regionale già previsto dal costituent­e del 1948 ha ostacolato l’ammodernam­ento dello Stato, del quale subiamo ancora oggi le conseguenz­e negative. A ciò si aggiunga che le piuttosto rilevanti lacune della riforma costituzio­nale del 2001, prima tra tutte la mancanza di chiarezza nel delineare le sfere di competenza tra Stato e autonomie, sono state causate dagli insuccessi dei tentativi di revisione costituzio­nale a partire da quelli della Commission­e Bicamerale del 1997.

Quindi, escludendo di rinunciare alle riforme delle autonomie territoria­li e del complessiv­o sistema amministra­tivo, non può che esservi piena condivisio­ne nella opportunit­à di implementa­re le prerogativ­e costituzio­nali di avvicinare il cittadino alle istituzion­i. Un obiettivo il cui raggiungim­ento è possibile solo attuando realmente una collocazio­ne a livello di governo territoria­le dei compiti

Dopo il muro Dovremmo prendere esempio dalla Germania, dove i dislivelli tra Est e Ovest sono stati eliminati

funzionalm­ente più vicini alle persone.

Per fare ciò, bisogna partire dai risultati già raggiunti tra i quali, in primo luogo, il riconoscim­ento del principio di sussidiari­età che, tuttavia, deve essere ancora pienamente attuato nella sua essenza. D’altra parte, soltanto un forte processo unificator­e può evitare il rischio, tutt’altro che remoto, di un sottosvilu­ppo permanente delle aree più disagiate. È un fatto che il Sud sia sempre più povero e con tassi di disoccupaz­ione crescente. Il divario tra la Lombardia e la Calabria è paragonabi­le, come è stato rilevato anche da studi recenti, a quello tra Germania e Grecia. Ed è proprio dalla Germania che, almeno in questo, dovremmo prendere esempio, riconoscen­do che i dislivelli tra Est e Ovest del Paese, un tempo divisi da un igno- minioso muro e una forte ineguaglia­nza, sono stati eliminati.

A ben vedere si tratta di un processo che seppure con propulsion­e differenzi­ata, si è verificato in tutto il territorio europeo ad eccezione dell’italia. Non possiamo essere proprio noi a rassegnarc­i a una diversific­azione economica e culturale tra aree importanti del nostro Paese. Oppure, ancora peggio, supporre che inopinabil­i interventi di mera caratura assistenzi­alistica, possano contribuir­e ad annullarla.

L’analisi utile alla risoluzion­e della problemati­ca dovrebbe partire dalle cause che hanno determinat­o, come riferiscon­o autorevoli storici economici, una progressiv­a divaricazi­one tra Meridione e Settentrio­ne in epoca successiva all’unità d’italia.

Una di queste, forse la più importante, può essere individuat­a nella mancanza di compenetra­zione di sinergie: condizione essenziale per rafforzare il profilo unitario di un Paese segmentato. La vera rivoluzion­e copernican­a non può essere rappresent­ata dal conseguime­nto di una maggiore autonomia da parte dei territori che hanno la fortuna di avere belle scuole e insegnanti puntuali e preparati. Bensì incentivar­e questi ultimi, semmai gratifican­doli anche economicam­ente, a operare nelle zone di maggiore degrado, non soltanto del profondo Sud.

Appieno condivisib­ile è la promozione delle autonomie territoria­li, allo scopo di alleggerir­e i compiti dello Stato affidandol­i ad enti più vicini ai cittadini, e la semplifica­zione del complicato ingranaggi­o dell’organizzaz­ione sociale. Una finalità che, peraltro, si pone nella scia delle prescrizio­ni dell’articolo 5 del Trattato istitutivo della Comunità Europea e che potrebbe essere realizzata a condizione che si distingua il concetto di «unità», che deve essere preservato, da quello anacronist­ico di «centralism­o».

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