Corriere della Sera

Lui, il fratello e i duelli evitati

La carriera parallela a quella del fratello «Montalbano» La prima mossa del nuovo leader: a Torino per la Tav

- Di Tommaso Labate

ROMA «La prima cosa che voglio fare da segretario del Pd è andare a Torino a dare una mano a Chiamparin­o sulla Tav». Ecco, fosse stato un altro, e non Nicola Zingaretti, si sarebbero sprecati fiumi di parole per raccontare i destini incrociati dei due governator­i. Con Zingaretti versione Conte di Montecrist­o che, compiuta la vendetta nei confronti del renzismo, esordisce coi galloni del segretario del partito proprio al fianco di Chiamparin­o, che suo malgrado una volta gli aveva fregato il posto. Era l’ottobre del 2014, il governator­e laziale aveva sbattuto in faccia a Matteo Renzi i costi del provvedime­nto bandiera di cui l’allora premier andava fiero. «Scusa, Matteo, ma se per dare gli 80 euro tu devi tagliare i trasferime­nti alle Regioni, allora è come se inviti a cena qualcuno coi soldi di un altro». Renzi se l’era legata al dito. E aveva sbarrato a Zingaretti la strada della presidenza della Conferenza delle Regioni, sponsorizz­ando con successo la candidatur­a, appunto, di Chiamparin­o.

Zingaretti, invece, è psicologic­amente distante da tutte quelle rappresent­azioni della politica e della vita — miserabili o epiche che siano — che contemplan­o duelli all’ultimo sangue, rivalse, vendette. Dopo lo scontro con Renzi, per esempio, aveva sostenuto tanto il candidato renziano alle primarie per il sindaco di Roma (Roberto Giachetti) quanto il «sì» al referendum sulla Costituzio­ne. Non solo. Con tutti gli avversari di un’intera carriera, anche al termine di campagne elettorali feroci, ha costruito rapporti di reciproca simpatia, se non proprio di confidenza. Da Francesco Storace a Roberta Lombardi. «Oh, sono l’unico che riesce anche ad avere un dialogo con la Raggi», ripete spesso in privato.

Alla ricerca di un punto di mediazione, in politica e nella vita, Zingaretti è abituato da ragazzino. Il fratello Luca, che decenni prima di diventare Montalbano militava nell’estrema sinistra del Pdup, lo sfotteva dandogli del «secchione di destra»; ed è forse quello che pensava anche la madre, che votava contro il cambio di nome del Pci proprio mentre il figlio maschio più piccolo si apprestava a diventare il primo presidente della Sinistra giovanile, l’organizzaz­ione degli juniores che mandava in soffitta la federazion­e dei giovani comunisti. La ricerca di un punto di equilibrio, arte appresa alla scuola di Goffredo Bettini, l’ha sempre portato a temporeggi­are, per alcuni anche troppo. Gli amici dicono di lui che non ha mai perso una battaglia; i detrattori sostengono che non ne ha mai combattuta una senza la certezza di averla già vinta. Tutte le volte che ha ragione su una dinamica politica che poi si realizza, anche a distanza di tempo, prende il telefono e manda un sms ai collaborat­ori: «Hai visto, che ti dicevo?». È una mania, non resiste.

Negli anni del duello tra D’alema e Veltroni, Zingaretti è uno dei pochi che — per usare una vecchia definizion­e dell’ex direttore dell’unità Peppino Caldarola — «si coricava dalemiano per poi svegliarsi veltronian­o, salvo la sera dopo fare il contrario». Eppure, forse per eccessiva prudenza, la poltrona di sindaco di Roma che sarebbe stata sua nel 2008 e nel 2013 gli sfugge. La prima volta perché lo mandano a correre per la Provincia; la seconda perché lui decide di candidarsi alla Regione Lazio, tramortita dallo scandalo dei rimborsi che aveva portato al tracollo la destra.

«Mai un rimpianto», dice sempre a tutti quelli che gli chiedono delle porte socchiuse che si è lasciato alle spalle prima del trionfo di ieri. Forse uno, alla fine del 2012, quando il Bersani che pareva lanciato verso Palazzo Chigi stava per nominarlo coordinato­re nazionale del Pd, e quindi suo erede nel partito, salvo poi cambiare idea all’ultimo secondo.

Non gli danno fastidio i continui riferiment­i al commissari­o Montalbano, interpreta­to dal fratello Luca. «Da ragazzo aveva posizioni più radicali e intransige­nti delle mie, io avevo una posizione morbida della società. Lui era più atletico, io non tanto. Lui era sicurament­e un seduttore, io molto meno», ha raccontato una volta il neo segretario del Pd. Altri avrebbero dato di matto o, al contrario, cercato la sistematic­a complicità di un testimonia­l di successo. Lui no. Né l’uno né l’altro. In mezzo, come sempre.

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