Alta velocità, no di bandiera del M5S già pronto alla sconfitta in Aula
Grillo: alt netto, anche se non servirà. Salvini punta su Conte: piena fiducia
Un no di principio, utile solo a fini identitari. Perché se nei prossimi giorni non si trovasse una sintesi, la posizione dei 5 Stelle sulla Tav, ormai di chiusura nettissima, non servirebbe a fermare l’avvio dell’odiata linea Torino-lione. La Lega lo sa bene e attende al varco. Offre un compromesso, il taglio della stazione di Susa, e punta a presentarsi come baluardo degli interessi dello sviluppo. Vuole vincere, ma non stravincere, intestandosi anche una riduzione dei costi.
I no sulla Tav dei 5 Stelle diventano sempre più pesanti, tutti indirizzati alla Lega, ma in realtà con un bersaglio più ravvicinato: Luigi Di Maio. Dopo Di Battista e Casaleggio, interviene Beppe Grillo: «Il Paese sceglie falsi problemi: piuttosto che sostenere i suoi milioni di poveri, preferisce disquisire di miliardi per bucare una montagna ed altre questioni che non esistono». Di Maio è sotto accusa per la linea ondivaga che avrebbe disorientato la base e sarebbe uno dei motivi del crollo nei sondaggi. Il vicepremier è stato preso di petto da Grillo: «Prendi una posizione e tienila. Dobbiamo dire di no con decisione alla Tav. Anche se non servisse a nulla».
In quell’«anche» sta il dramma del Movimento. Come spiega un dirigente: «È una battaglia persa ma dobbiamo far finta di combatterla se vogliamo fermare l’emorragia di voti». La fermezza con la quale la Lega si dice favorevole alla Tav deriva da una certezza: che nella guerra dei numeri, quelli dei costi/benefici contano meno di quelli del Parlamento. Per bloccare la Tav bisogna approvare una legge di modifica del trattato con la Francia. Il Movimento è solo contro tutti. Anche nel caso miracoloso passasse una legge, non ci sono precedenti di annullamenti di trattati firmati dal Quirinale. Dunque: combattere non serve a nulla, se non a provare a convincere gli elettori di non aver tradito.
A meno che non si confidi ancora in un compromesso politico. Ci ha provato invano Laura Castelli. Ci credono ancora Stefano Buffagni e Riccardo Fraccaro. Ma un compromesso farebbe saltare la giunta Appendino e forse anche il Movimento. Il pallino è nelle mani di Danilo Toninelli. Il ministro sta raccogliendo molti malumori: lo accusano di aver agito tardi e male. Toninelli rischia di essere il capro espiatorio. L’11 marzo il cda di Telt dovrà sbloccare i bandi di gara da 2,5 miliardi per il tunnel, pena la perdita di 300 milioni di finanziamenti europei. Se lo facesse (il cda è di nomina governativa), Toninelli rischierebbe nel voto di sfiducia chiesto dal Pd. Con una maggioranza così esigua, difficile che il ministro ne esca indenne. Con un no ai bandi per la mancata messa a disposizione delle risorse da parte francese, si rischia un danno erariale.
Una situazione senza vie d’uscita. Di Maio appare sotto ipoteca. Per uscirne potrebbe sperare in una dilazione di tempi, con un via libera condizionato ai bandi: annullabili entro sei mesi (ma c’è il rischio di penali). O potrebbe decidere di affidarsi a un referendum, per scaricare sulla base la responsabilità. A meno che non dia l’ultima parola al premier, che potrebbe escogitare qualche cavillo da azzeccagarbugli. Non arrivano per caso le parole di Matteo Salvini: «Piena fiducia in Conte sulla Tav. Sono certo che troveremo una soluzione insieme. È un’opera importante che va fatta, come chiedono cittadini e imprese».