Corriere della Sera

LE TANGENTI DEL LITTORIO

Un libro di Mauro Canali e Clemente Volpini (Mondadori) passa in rassegna gli arricchime­nti di noti personaggi del regime fascista, Mussolini compreso Nel dopoguerra furono quasi tutti vani i tentativi di punire le passate ruberie LA CORRUZIONE DILAGAVA T

- di Paolo Mieli

Nel 1975, durante uno spettacolo a Genova, Walter Chiari (che in gioventù aveva aderito alla Repubblica sociale italiana) lanciò una provocazio­ne: «Quando fu appeso per i piedi a piazzale Loreto, dalle tasche di Mussolini non cadde nemmeno una monetina… Se i nuovi reggitori d’italia subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle loro tasche!». La battuta provocò un grande applauso, a dispetto del fatto che la città fosse medaglia d’oro della Resistenza e di lì nell’estate del 1960, per protesta contro la convocazio­ne di un congresso del Msi, fosse partita la rivolta che aveva provocato la caduta del governo Tambroni. Da allora la battuta di Walter Chiari divenne un luogo comune della destra e, più in generale, dei settori qualunquis­ti e conservato­ri dell’opinione pubblica italiana. Anche quelli non nostalgici. Mauro Canali e Clemente Volpini sono andati a verificare se le cose andarono veramente nei modi di cui alle parole di Walter Chiari. Se cioè corrispond­e alla realtà che i fascisti, ancorché politicame­nte nefasti, siano stati sostanzial­mente onesti. E sono giunti alle conclusion­i — esposte in un libro, Mussolini e i ladri di regime. Gli arricchime­nti illeciti del fascismo, in procinto di essere pubblicato da Mondadori — che le cose non stanno così.

Mussolini, ricordano Canali e Volpini, aveva fondato nel 1919 il movimento fascista (che diventerà Partito nazionale fascista nel 1921) «per combattere i profittato­ri di guerra, i “pescecani”, i politicant­i, gli egoisti, i corrotti e poi i parassiti dello Stato». Il programma dei Fasci di combattime­nto proponeva il sequestro dei profitti di guerra o una vera espropriaz­ione parziale di tutte le ricchezze attraverso un’imposta sul capitale. Poi, dopo che Mussolini giunse al potere (1922), non se n’era più fatto niente. Ma nella retorica del regime l’attacco alla plutocrazi­a, al potere della ricchezza resisterà per tutto il Ventennio. Fisiologic­o perciò che, dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943), il governo di Pietro Badoglio avviasse immediatam­ente un’indagine per verificare se sotto il regime fossero state commesse delle ruberie. Il 5 agosto del 1943, la notizia dell’avvio dell’inchiesta sugli illeciti arricchime­nti dei maggiorent­i mussolinia­ni — con un’apposita commission­e presieduta dal presidente della Corte suprema di Cassazione Ettore Casati — fu data da tutti i giornali e nel giro di pochi giorni i gerarchi finirono sulle prime pagine — scrivono Canali e Volpini — «gettati in pasto a un’opinione pubblica che fino a poco tempo prima li aveva temuti odiati, riveriti, spesso invidiati». Con quei racconti, aggiungono gli autori, la fine tragica del Ventennio assunse «tratti da commedia, da spettacolo del malaffare ridicolo e ricco di colpi di scena». Con «fughe rocamboles­che, rotoli di banconote nascosti nell’acqua degli sciacquoni, arresti eccellenti, favolosi patrimoni in ville, tenute, palazzi e castelli». Per arrivare infine «ai sequestri dei beni mobili, con verbali e inventari redatti con una pignoleria da non credersi»: dalle pellicce agli arazzi, dai cavalli purosangue ai posacenere, «passando per i corredi, tovaglie, lenzuola, asciugaman­i, fino al numero di posate in argento e all’ultima pantofola, calza e mutanda del gerarca inquisito». Il tutto «immerso in un fiume di denaro e in un cerchio fatto di amici, amici degli amici, amanti, mogli, figli, parenti lontani, ricattator­i, ruffiani e segretarie compiacent­i». Per un ammontare di 118 miliardi di lire dell’epoca di cui l’erario riuscirà a recuperare solo 19.

In seguito di quel genere di storie che avevano tenuto banco sui giornali nell’estate del 1943 si parlò sempre meno; finché, poco più di trent’anni dopo, fu possibile fare quella battuta a Genova senza che nessuno (o quasi) trovasse alcunché da ridire. Adesso i due storici, sulla base di una nuova, ampia documentaz­ione inedita, sono giunti a un punto definitivo: gran parte dei fascisti di primo piano, a partire dallo stesso Mussolini e dai familiari della sua amante Claretta Petacci, si arricchiro­no in modo davvero considerev­ole. Conclusion­e a cui giunge anche un altro pregevole volume testé edito da Laterza, Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, che raccoglie saggi di autori diversi, raccolti e curati da Paolo Giovannini e Marco Palla.

Il più grande arricchito del regime risulta essere Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, che sarà ministro degli Esteri nonché marito di Edda, la figlia di Mussolini. Alla morte di Costanzo Ciano, raccontano Canali e Volpini, Vittorio Emanuele III aveva confidato a Mussolini, «facendogli strabuzzar­e gli occhi e lasciandol­o senza fiato», che l’uomo aveva accumulato un patrimonio di circa 900 milioni. Ma c’è stato anche di peggio.

Ipiù sorprenden­ti risultano essere il prefetto Antonio Le Pera e il sottosegre­tario (futuro ministro dell’interno nella Rsi) Guido Buffarini Guidi, che lucrano sulle politiche razziali del regime. «La banda che era mossa dal prefetto Lepera in realtà faceva capo a Buffarini che mangiava a quattro ganasce», annotava Galeazzo Ciano sul suo diario. Voci si addensano anche su uno dei principali esponenti dell’antisemiti­smo italiano, Telesio Interlandi, direttore de «Il Tevere». Alla fine degli anni Trenta, Francesco Peruzzi, questore e alto funzionari­o dell’ovra, sostiene che Interlandi avrebbe ricattato per «varie decine di migliaia di lire» l’ebreo Gino Coen, un «facoltoso industrial­e romano». Il questore riferisce al capo della polizia Arturo Bocchini, il quale a sua volta informa Mussolini. Il Duce, ricostruis­cono Canali e Volpini, «vuole certezze e affida al ministro della cultura popolare Dino Alfieri il compito di far luce sul caso Interlandi». Peruzzi raccoglie le prove, le consegna ad Alfieri e poi riferisce anche a Bocchini, che lo liquida con una battuta: «Hai fatto una fatica inutile perché purtroppo Interlandi non sarà mai toccato in quanto nella faccenda degli ebrei troppe personalit­à sono coinvolte, non esclusi gli stessi familiari di Mussolini».

Interessan­te è la storia di Roberto Farinacci, il ras di Cremona, squadrista, antisemita, filonazist­a, al fianco di Mussolini anche durante l’avventura di Salò e per questo fucilato dai partigiani il 28 aprile 1945. L’immagine che tenne a dare di sé fu quella del «paladino della rivoluzion­e fascista, duro e puro», «integerrim­o e votato alla causa», impegnato in una «personalis­sima battaglia contro gli affaristi, i

 Profittato­ri

Il prefetto Antonio Le Pera e il sottosegre­tario Guido Buffarini Guidi lucrarono sulle politiche razziali estorcendo denaro a facoltosi ebrei

Confidenze

Il re disse al Duce che Costanzo Ciano, padre del marito di sua figlia Edda, aveva accumulato un patrimonio di ben 900 milioni di lire

corrotti, e i profittato­ri di regime, contro chi sfruttava il partito per arricchirs­i». L’inchiesta sui suoi arricchime­nti durerà dal 1943 al 1956 e il suo patrimonio sarà valutato, nel 1949, in una cifra astronomic­a: 614 milioni e 627 mila lire. Tanto per dare un’idea delle proporzion­i, precisano Canali e Volpini, nel 1938 un senatore del Regno guadagnava annualment­e tra le 20 e le 25 mila lire, un maestro tra le 9 e le 13.500 lire, un operaio 4.238 lire. Farinacci non poté godere del patrimonio accumulato perché fu giustiziat­o come si è detto nel 1945, ma aveva sistemato le cose in modo che ne potessero usufruire i suoi familiari. Alla fine, dopo undici anni di battaglie legali, i suoi eredi riuscirann­o a «salvare» una somma di oltre 600 milioni, «pagando una cifra irrisoria in comode rate e cedendo appena poco più di due ettari di terreno e una società in gravissime condizioni economiche, che nessuno più voleva, dopo averla comunque depredata di una bella fetta del suo patrimonio immobiliar­e».

Più «fortunato» di tutti è il sindacalis­ta Edmondo Rossoni, nato nel 1884 a Tresigallo in provincia di Ferrara. Sindacalis­ta rivoluzion­ario all’inizio del Novecento, fu denunciato la prima volta nel 1903 quando aveva solo diciannove anni e in seguito fu costretto a fuggire in Francia, negli Stati Uniti, in Brasile. Al momento della marcia su Roma, Rossoni ha già trentott’anni. Non è uno dei più giovani tra i seguaci di Mussolini. Poi però diviene capo dei sindacati fascisti, deputato per tre legislatur­e, consiglier­e nazionale alla Camera dei fasci e delle corporazio­ni, sottosegre­tario alla presidenza del Consiglio, ministro dell’agricoltur­a e Foreste e membro del Gran Consiglio dal 1930 fino all’ultima seduta del 25 luglio 1943, quando con il suo voto favorevole all’ordine del giorno di Dino Grandi è tra i gerarchi che provochera­nno la caduta del fascismo. È uno dei protagonis­ti di Canale Mussolini di Antonio Pennacchi (Mondadori). Tra il 1922 e il 1925, registrano Canali e Volpini, «i contratti conclusi dalle corporazio­ni fasciste furono peggiori di quelli stipulati dalle associazio­ni “rosse” negli anni precedenti, sia in termini di paghe che di condizioni di lavoro». E Rossoni divenne improvvisa­mente agiato. Nel 1924 comprò a Roma un sontuoso appartamen­to ai Parioli e un podere di cinque ettari a Tresigallo. Ma fu solo l’antipasto.

Nell’ottobre 1925, con il patto di Palazzo Vidoni tra la Confindust­ria e la Confederaz­ione delle corporazio­ni fasciste, il gerarca ottenne il monopolio della rappresent­anza operaia e nel 1926 il riconoscim­ento giuridico di un solo sindacato nazionale per categoria. Così Rossoni diviene «uno degli uomini più potenti d’italia». Nel novembre 1927, lascia i Parioli e si trasferisc­e in via Veneto «che non è ancora il cuore della “dolce vita” ma è già il grande boulevard degli hotel esclusivi» L’ovra raccoglie le confidenze di un ufficiale della milizia che racconta di «un appartamen­to addirittur­a

principesc­o, con salotti numerati, servi in livrea, camerieri e governanti».

Nel dicembre del 1928, Mussolini — alle cui orecchie sono giunti i mormorii sulla vita da satrapo del «sindacalis­ta» (Curzio Malaparte lo definì «la miglior forchetta del Regime») — prova ad esautorarl­o disponendo il cosiddetto «sbloccamen­to», attraverso il quale l’organizzaz­ione dei lavoratori guidata da Rossoni viene smembrata in sei confederaz­ioni nazionali. La risposta di Rossoni è un dossier su Mussolini che contiene notizie su illeciti del Duce che risalgono addirittur­a alla stagione che precedette la nascita del fascismo.

Circola anche la voce che Rossoni sia fuggito all’estero «ben foderato di milioni». Ma il ras del sindacalis­mo fascista resta invece a Roma e nel 1929 compra una lussuosa villa ad Anzio. Magione che incuriosis­ce il capo del fascismo. Quinto Navarra, il cameriere di Mussolini, racconta nelle sue memorie: «Un giorno il Duce mi passò una lettera anonima nella quale si diceva che Edmondo Rossoni nella sua villa di Anzio possedeva un bagno con acqua di colonia corrente… Mussolini andò su tutte le furie e diede l’incarico a un funzionari­o della segreteria di assumere informazio­ni… Si riuscì a sapere, poi, che nel bagno di Rossoni esisteva un rubinetto per il profumo, ma era un rubinetto applicato a un grosso vaso di vetro contenente acqua di colonia».

La villa viene intestata all’amante di Rossoni, Anna Piovani, da cui l’uomo politico ha avuto una figlia, Itala. L’ovra si accanisce contro la Piovani e scopre che è una prostituta e ha a sua volta un amore: «Batteva il marciapied­e di Via Condotti per sovvenzion­are l’amante del cuore, un certo Oscar». Secondo un informator­e la Piovani è anche comparsa nuda in un film di Augusto Genina. Alla sua sarta di fiducia avrebbe confidato che Rossoni «ha piazzato al sicuro diversi milioni nelle banche d’america». Le piace giocare a poker, balla «in modo un po’ sguaiato» e ha nuovi spasimanti tra i quali «un noto baro, certo Mario Ventunni» definito nella relazione «cocainoman­e». Ma Rossoni continua ad intestarle i beni.

Giuseppe Bottai nel suo diario riporta una lettera anonima del 1935 che definisce Rossoni «imboscato, poligamo, cornuto, ladro». Bottai e Augusto Turati allertano Mussolini sulle trame di Rossoni; il Duce però lo riabilita e il «sindacalis­ta» riprende la marcia trionfale. Nel dopoguerra Piero Calamandre­i troverà il dossier sulle ruberie di Rossoni e le prove che Mussolini sapeva tutto di lui. Ne trarrà questa conclusion­e: «Gli uomini per governare devono essere corrotti, o meglio devono essere corrotti per poterli ricattare… Quel dossier doveva servire a Mussolini per tenerlo schiavo». Schiavo sì ma fino al 25 luglio del 1943, quando Rossoni lo tradirà. Per riparare subito dopo in Vaticano, in un monastero sull’appennino, a Dublino e in Canada. E poi tornare in Italia amnistiato nel dopoguerra, concordare un relativame­nte modesto risarcimen­to all’erario, tenere per sé qualche decina di milioni e trovare la morte nel 1965, a 81 anni, dopo un’ultima stagione vissuta in un’agiata tranquilli­tà. Grande libro quello di Canali e Volpini.

 ??  ?? Denuncia Esce in libreria domani il saggio di Mauro Canali e Clemente Volpini Mussolini e i ladri di regime (Mondadori, pagine 233,22). Mauro Canali è autore di numerosi libri sulla storia del fascismo e in particolar­e sull’apparato repressivo del regime. Clemente Volpini, autore televisivo, collabora da anni con Rai Storia
Denuncia Esce in libreria domani il saggio di Mauro Canali e Clemente Volpini Mussolini e i ladri di regime (Mondadori, pagine 233,22). Mauro Canali è autore di numerosi libri sulla storia del fascismo e in particolar­e sull’apparato repressivo del regime. Clemente Volpini, autore televisivo, collabora da anni con Rai Storia
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 ??  ?? Il ras Roberto Farinacci (primo da sinistra) con altri esponenti fascisti. Nato a Isernia ma cremonese di adozione, Farinacci (1892-1945) fu uno dei capi (i «ras» dal nome dei signori feudali etiopi) più aggressivi dello squadrismo. Segretario del Partito fascista tra il 1925 e il 1926, sfruttò il suo potere per arricchirs­i
Il ras Roberto Farinacci (primo da sinistra) con altri esponenti fascisti. Nato a Isernia ma cremonese di adozione, Farinacci (1892-1945) fu uno dei capi (i «ras» dal nome dei signori feudali etiopi) più aggressivi dello squadrismo. Segretario del Partito fascista tra il 1925 e il 1926, sfruttò il suo potere per arricchirs­i

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