Corriere della Sera

Il doppio volto dell’olanda

Il paradosso: chiede rigore ma sottrae entrate tributarie agli altri Paesi europei

- Di Federico Fubini

L’Olanda chiede rigore per il bilancio. Lo fa da vent’anni e in questi giorni guida il gruppo di otto Paesi del Nord Europa irritati per i rischi che l’italia prende sul debito pubblico. Eppure proprio le regole fiscali olandesi per le multinazio­nali minacciano il risanament­o dell’europa stessa.

L’olandese Wopke Hoekstra è oggi il ministro delle Finanze più attivo d’europa. All’età di 43 anni, con un passato da partner di Mckinsey e prima ancora diplomato dell’insead, la prestigios­a scuola di impresa di Fontainebl­eau, Hoekstra ha appena creato dei dispiaceri proprio alla Francia con le sue mosse sul gruppo Air France-klm: in silenzio, il governo dell’aia è salito nel capitale del gruppo proprio per contrastar­e i rivali di Parigi.

Giorni prima il dinamismo di Hoekstra si era espresso sull’italia: dall’inizio dell’anno l’olandese è stato il solo nell’eurogruppo a chiedere «più informazio­ni» sul bilancio di Roma, definendo «poco convincent­e» l’accordo con la Commission­e Ue. Questo tipo di pressione per il rigore di bilancio non è nuova. È la posizione dell’olanda da oltre vent’anni e in questi giorni trova conferme fra gli sherpa finanziari europei. Hoekstra e il suo governo guidano la cosiddetta Lega anseatica, un gruppo di otto Paesi nordici irritati per i rischi che l’italia prende sul deficit e il debito pubblico.

Rassicuran­te, in un certo senso. Lo è senz’altro che qualcuno si preoccupi delle finanze dell’italia, dopo che chi la governa ha dato a lungo l’impression­e di non farlo. Lo è anche se magari le ricette proposte dall’olanda non sembrano le più indicate: l’idea è di guidare i Paesi in difficoltà a una «ristruttur­azione automatica» del debito, ossia al default; poco importa che già solo offrire una simile prospettiv­a rischi di destabiliz­zare i mercati, generando la stessa crisi che a parole si vorrebbe evitare. Hoekstra insiste: «È imperativo che i bilanci pubblici siano in pareggio».

Resta però da misurare esattament­e il contributo dell’olanda al risanament­o in Europa. Al livello individual­e, esso è indiscutib­ile: il Paese ha un attivo di bilancio e il debito è sceso sotto delle soglie di Maastricht. È però quando si guarda il contributo dei Paesi Bassi al sistema dell’euro che il quadro si fa (quantomeno) ambiguo, perché le politiche dell’aia non hanno fatto altro che sottrarre surrettizi­amente negli anni centinaia di miliardi di base fiscale agli altri Paesi. Agli stessi, per la precisione, ai quali nel frattempo Hoekstra chiede minacciosa­mente di risanare. Se

Le multinazio­nali L’aia concede ad hoc prelievi risibili ad alcuni dei gruppi più grandi al mondo

l’olanda fosse un’isola dei Caraibi, la si chiamerebb­e un «paradiso fiscale». Nel suo rapporto di pochi giorni fa la Commission­e Ue scrive con più timidezza: «Le regole fiscali olandesi sembrano essere usate da multinazio­nali impegnate in strutture di pianificaz­ione tributaria aggressiva».

È più che un'apparenza in realtà. Brad Setser, ex alto funzionari­o del Tesoro Usa, ha raccolto i dati prodotti dallo spostament­o sull’olanda — contabile — dei profitti in gran parte da proprietà intellettu­ale delle multinazio­nali americane. Tutte cercano i prelievi risibili che l’aia concede ad hoc ad alcuni dei gruppi più grandi al mondo. Risulta così che l’investimen­to diretto di aziende Usa nei Paesi Bassi sarebbe in teoria di 51 volte superiore a quello in Germania, di 77 volte superiore a quelli in Francia e 155 superiore all’italia (tutte economie varie volte più grandi dell’olanda). Sono solo effetti ottici prodotti da sedi olandesi di aziende multinazio­nali simili soprattutt­o a cassette delle lettere. Da cosa si capisce? Come mostra Setser, quei gruppi avrebbero in teoria oltre 200 mila euro di utile (non ricavi, ma margini profitto) per ogni dipendente: decine di volte più che in Germania o Italia. In questo l’olanda è davvero uno dei maggiori paradisi fiscali globali, più di Singapore, delle Bermude o dei Caraibi britannici. E in gran parte a danno del resto d’europa, come mostra Gabriel Zucman dell’università di California a Berkeley: ogni anno sottrae artificial­mente oltre 50 miliardi di base fiscale altrui. Ciò contribuis­ce a generare l’effetto contabile di un surplus esterno monstre, molto oltre le regole Ue, che però la Commission­e Ue non ha mai osato definire «eccessivo». Basterebbe che Hoekstra scegliesse: se chiede responsabi­lità fiscale agli altri, deve rinunciare alla propria irresponsa­bilità. Entrambe le cose insieme, no.

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