Corriere della Sera

«Siamo tornati tutti» Gli artisti che scommetton­o (di nuovo) sul partito

Volti noti ai seggi: da Guccini a Virzì, da Benigni a Moretti

- di Tommaso Labate

ROMA «Glielo dico io, che sono uno di quelli che c’è sempre stato e ci sarà sempre, per la sinistra. Mettiamola così, essere di sinistra a volte è una gran rottura di scatole. Non è come essere di destra, dove comanda uno e per essere di destra basta andare dietro quell’uno che comanda e tutti zitti. Essere di sinistra vuol dire avere a che fare con tutti che vogliono dire la loro, con tutti che hanno la loro soluzione ai problemi, con i litigi, i tormenti. Se sono tornati tutti, e sono tornati tutti, vuol dire che forse c’è qualcuno che ha superato il limite. Mi capirà, anche se glielo dico un po’ andreottia­namente...». Andreottia­namente, nel senso del dirlo senza dirlo fino in fondo, l’attore Massimo Ghini vede dietro i limiti superati da Matteo Salvini e Luigi Di Maio la chiave con cui spiegare il grande ritorno di «tutti» verso il Pd e il centrosini­stra.

Perché c’erano tutti, e se non erano proprio tutti poco ci mancava, nel gran giorno delle primarie che hanno incoronato Nicola Zingaretti nuovo segretario del Pd. C’era il Nanni Moretti del «con questi dirigenti non vinceremo mai», pronunciat­o in piazza Navona all’alba degli anni Duemila mentre i dirigenti in questione (da Fassino a Rutelli, passando per D’alema) si apprestava­no a porre le fondamenta di quello che sarebbe diventato il Pd. Ai gazebo s’è presentata Sabrina Ferilli, figlia di Giuliano, storico «compagno» del Pci viterbese molto amico di Ugo Sposetti (era stata, a sua volta, testimonia­l di una campagna elettorale di Sposetti per il comune di Viterbo, anno 2008), folgorata tre anni fa sulla via dei Cinque Stelle e poi pentita; e s’è presentato pure Renzo Arbore, «repubblica­no all’epoca in cui erano tutti comunisti», che nella storia moderna della Rai era stato preso di petto da Bettino Craxi in persona («Non ho capito se mi stimi o mi sfotti»). C’era Paolo Virzì, che qualche mese fa aveva auspicato un Pd con un «buttadentr­o, non coi buttafuori»; e c’era anche Gigi Proietti, testimonia­l del sì al referendum sul divorzio e frequentat­ore degli ambienti vicini al Partito comunista all’epoca in cui il segretario era Enrico Berlinguer. E anche Roberto Benigni, che a Berlinguer l’aveva preso in braccio e prima ancora portato dentro un lungometra­ggio (Berlinguer ti voglio bene, regia di Giuseppe Bertolucci), il premio Oscar contestato a sinistra per il suo «sì» al referendum sulla Costituzio­ne voluto da Matteo Renzi.

Tutti insieme appassiona­tamente, come forse nemmeno negli anni belli del centrosini­stra più o meno ulivista, all’epoca in cui l’unica divisione lacerante era tra i fan della sinistra riformista e gli ultrà dell’ala massimalis­ta vicina alle posizioni del partito della Rifondazio­ne comunista. Dice Francesco Guccini che «il 3 marzo è stato un giorno molto importante per la sinistra italiana. Guardate oggi, già solo la presenza di un segretario del Pd sembra abbia rotto quel muro in cui siamo abituati a sentire solo le voci di Salvini». Per chi ha votato? Ora si può dire. «Per Zingaretti. Lo ritengo la persona giusta per guidare la sinistra e magari, un domani, il Paese. Meno male che questa volta mi hanno fatto votare qui, dove vivo (a Pavana, sull’appennino tosco emiliano, ndr). L’ultima volta, essendo ancora residente a via Paolo Fabbri a Bologna, non me l’avevano permesso...».

Sarà, come dice Ghini, che «Zingaretti sa fare benissimo il governator­e, e alla sinistra dalle mille voci serve proprio uno che sappia governare». Oppure, come sottolinea Gabriele Muccino, che «in pochi mesi l’italia sembra essere andata indietro di decenni (il riferiment­o è al governo gialloverd­e, a cominciare da Salvini, ndr), per cui ben venga uno come Zingaretti, che sembra la persona giusta per risollevar­e le sorti del centrosini­stra e magari anche dell’italia». Sta di fatto che il 3 marzo 2019 pare il giorno del biglietto di ritorno di tutti gli «impegnati» sotto lo stesso tetto. Anzi, quasi tutti. Moni Ovadia, per esempio, ai gazebo non ci è andato: «Allo stato, il Pd non è assolutame­nte un partito di sinistra. Al massimo è un partito di centro. L’ho vissuto sulla mia pelle, nel corso degli ultimi anni: se non sei dei “loro”, per “loro” puoi anche crepare. Spero che Zingaretti ritrovi i pilastri su cui va costruito un partito di sinistra. Che sono l’uguaglianz­a, la pace, la libertà e la giustizia sociale. Fino a che questo non succede, il sottoscrit­to ai gazebo non lo vedranno mai».

Contro il governo

L’attore Massimo Ghini: se c’è stato un ritorno è perché si sono passati dei limiti

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