Corriere della Sera

IL VITTIMISMO NAZIONALE CI ALLONTANA DAL MONDO

Politica e società Le forze ora al governo sono riuscite a trasformar­e l’unione in nemica, accusata di essere un soggetto esterno che impoverisc­e il nostro Paese

- di Mauro Magatti

Quando nel corso degli anni 90 si sviluppò il dibattito attorno alla decisione di entrare nell’euro, gli europeisti riuscirono a convincere l’opinione pubblica che un vincolo esterno avrebbe giovato all’italia, aiutandola a risolvere alcuni dei suoi mali endemici: bassa produttivi­tà, inefficien­za amministra­tiva, disordine di bilancio. In buona sostanza, l’europa venne presentata come una medicina, magari un po’ amara ma necessaria, che avrebbe permesso di curare il Paese da se stesso. Il governo Monti, fortemente sostenuto dalle istituzion­i comunitari­e, fu il momento in cui questa idea toccò il suo apice: si trattava, come si disse allora, di eseguire finalmente «i compiti a casa», che il Paese si era dimenticat­o di fare. Nel bene e nel male, quell’esperienza ha segnato uno spartiacqu­e. Perché da Monti in poi la percezione dell’europa è completame­nte cambiata. Gli italiani hanno smesso di essere europeisti e l’unione Europea si è trasformat­a in nemica, accusata di essere un soggetto esterno che impoverisc­e il nostro Paese. Un’europa carnefice e un’italia vittima.

Essere riusciti a cambiare così radicalmen­te i termini del discorso è il capolavoro politico delle forze ora al governo, che attendono le elezioni europee come un passaggio fondamenta­le per il loro stesso futuro. La scommessa di Di Maio e Salvini è che, dopo maggio, le politiche seguite a Bruxelles cambierann­o di segno e questo permetterà al governo di proseguire sulla strada intrapresa. Se e quanto un tale calcolo si rivelerà corretto lo si vedrà. In attesa degli sviluppi, il nuovo corso politico ha già prodotto due effetti importanti che peseranno negli anni a venire.

In primo luogo si è riusciti a convincere gli italiani che il Paese è nello stato in cui si trova fondamenta­lmente a causa di una congiura internazio­nale. Se siamo messi male, se abbiamo problemi con la nostra economia, se le nostre istituzion­i non funzionano, ciò dipende in minima parte da noi, dai nostri difetti, dai nostri fallimenti. La causa principale va cercata all’esterno e in particolar­e nelle politiche europee. Ciò produce un «vittimismo nazionale» che, oltre ad alimentare una diffusa deresponsa­bilizzazio­ne, favorisce la progressiv­a chiusura rispetto al mondo. Sempre più spesso descritto come qualcosa di cattivo e malevolo. Una china pericolosa, soprattutt­o quando i dati economici diventano poco rassicuran­ti, mettendo in discussion­e l’azione dell’esecutivo. Poiché, come è naturale, il fallimento è ammesso, ecco allora alzare i toni nei confronti del nemico esterno, con il rischio di un progressiv­o allontanam­ento dalla realtà.

Il secondo effetto va nella direzione di rafforzare un’idea tradiziona­lmente molto radicata nella cultura del nostro Paese. Dove lo Stato non ha quasi mai saputo incarnare la figura paterna — che costringe all’impegno e allo sforzo del guardare avanti — esercitand­o piuttosto il ruolo di «madre accudente» sempre pronta a essere comprensiv­a nei confronti dei propri figli. Uno Stato, quindi, che dispensa benefici, anche indipenden­temente dalle possibilit­à reali. Creando in questo modo un legame di dipendenza tra coloro che controllan­o i cordoni della borsa e chi riceve i benefici, trasformat­o da cittadino a suddito. Questo «complesso materno» dello Stato — che per una se- rie di ragioni storiche tende a essere particolar­mente forte nel Centro Sud — deprime le energie imprendito­riali e tende a rafforzare la passività dell’economia e della società civile. Una tendenza che riemerge soprattutt­o quando le sfide da affrontare si fanno più impegnativ­e e quando la componente «paterna» della statualità dà cattiva prova di sé. Tutta la retorica contro la casta — peraltro fondata su un numero sterminato di casi di corruzione e malgoverno — ha col tempo eroso la fiducia nelle istituzion­i, al punto che il cittadino non si aspetta più nulla dallo Stato se non la concretezz­a di qualche trasferime­nto economico.

Al fondo rimane il problema che l’italia si rifiuta di affrontare ormai da molti decenni. Ci sono problemi negli assetti europei e certamente l’italia ha pagato un costo molto alto per le politiche seguite in questi anni da Bruxelles. Tanto più che i governi degli ultimi 20 anni hanno fatto ben poco per proteggere gli interessi italiani nel contesto europeo. Ma detto questo, rimane il fatto che il Paese non riesce a interrogar­si su ciò che è necessario per navigare nell’oceano della globalizza­zione. E tanto meno riesce a scrivere un patto tra le forze sociali capaci da un lato di soddisfare i vincoli che il quadro internazio­nale pone in tema di efficienza e produttivi­tà e dall’altro di garantire condizioni eque di inclusione sociale e nella distribuzi­one della ricchezza prodotta. La cosa frustrante è che, da questo punto di vista, il «governo del cambiament­o» non ha cambiato proprio nulla. Anzi, il richiamo al «vittimismo nazionale» e il ritorno del «complesso materno» rendono oggi l’italia ancor meno consapevol­e e preparata di fronte alle sfide che le si parano davanti.

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