Corriere della Sera

Memoria, memoria, tanta memoria I fili ininterrot­ti di Vincenzo Consolo

Un volume della Fondazione Mondadori curato da Gianni Turchetta e un epistolari­o edito da Archinto

- Di Paolo Di Stefano

Se c’è uno scrittore che ha passato tutta la vita a combattere sul fronte dell’impegno etico-civile e su quello della sperimenta­zione linguistic­a, questo è Vincenzo Consolo. «Il maggiore scrittore italiano della sua generazion­e» l’ha definito Cesare Segre, tenendo presente che la sua generazion­e è quella che viene dopo Sciascia, Pasolini, Volponi e Calvino, e cioè quella degli anni Trenta (Consolo è nato a Sant’agata di Militello nel 1933 ed è morto a Milano nel 2012) che ha attraversa­to le turbolenze della neoavangua­rdia con totale simpatia o totale disgusto. Consolo non si è allineato né con gli uni né con gli altri: grazie a un suo speciale e inesausto sperimenta­lismo, sempre in lotta contro la lingua del suo tempo e contro la lingua vittoriosa della storia; insofferen­te e pessimista rispetto alle magnifiche sorti agognate dalle ideologie progressis­te. Arrivato a Milano negli anni Cinquanta per studiare, attratto dalle sirene vittorinia­ne, Consolo abita fino alla fine nella metropoli lombarda (con crescente irritazion­e che culmina negli anni Novanta) ma non smette di tormentars­i sul destino della sua Sicilia. E anzi la sua narrativa rappresent­a quasi programmat­icamente (e ostinatame­nte) le varie fasi della storia sicula, dall’antichità greca (Le pietre di Pantalica) alla dominazion­e spagnola (Lunaria), al Settecento illuminist­a (Retablo), alla pessima realizzazi­one unitaria (Il sorriso dell’ignoto marinaio), all’irrazional­ismo prefascist­a (Nottetempo, casa per casa), al secondo dopoguerra, fino alla contempora­neità della cronaca mafiosa (L’olivo e l’olivastro), comprese le «memorie degli innocenti sopraffatt­i dai delinquent­i» (Lo spasimo di Palermo).

La scrittura di Consolo vive di molteplici paradossi, come non cessa di sottolinea­re Gianni Turchetta, curatore del splendido Meridiano, coordinato­re del convegno milanese che si terrà domani e giovedì a Milano e autore del saggio introdutti­vo delle «Carte raccontate», il fascicolo appena pubblicato dalla Fondazione Mondadori: «Per Consolo la “letteratur­a” è il luogo dove il linguaggio viene sospinto fino alle sue estreme possibilit­à, sottoposto a una pressione senza compromess­i, con una tensione che è al tempo stesso formale e morale (…). D’altro canto, Consolo non smette di ricordare quanto le parole siano mancanti rispetto alla realtà». In questa contraddiz­ione irresoluta è il tragico della narrativa di Consolo, che si rispecchia nel rigore tormentoso del lavoro materiale sul testo, dove ogni parola e ogni giro sintattico sono il risultato di scavi filologici e, si direbbe, archeologi­ci, sprofondam­enti negli strati della memoria storica, con le sue cicatrici, e della memoria linguistic­a.

In un burrascoso incontro al Teatro Studio di Milano (un entusiasma­nte tutti contro tutti), organizzat­o nel marzo 2002 dalla Fondazione del Corriere, con Emilio Tadini, Tiziano Scarpa e Laura Pariani, Consolo disse: «Se stabiliamo che la letteratur­a è memoria — e la letteratur­a è memoria altrimenti sarebbe soltanto comunicazi­one cronistica, giornalism­o — allora diventa anche memoria linguistic­a. Io credo che l’impegno di chi scrive sia quello di far emergere continuame­nte la memoria».

Memoria è anche memoria linguistic­a: il che significa affidare alla letteratur­a il compito di resistere al linguaggio «fascistiss­imo» dell’omologazio­ne. Una visione pasolinian­a. Anche per questo è affascinan­te (e non di rado perturbant­e) seguire da vicino lo scrittore lungo le vie accidentat­e che conducono alla pubblicazi­one delle sue opere: attraverso cui si intuisce come «dato fondativo» della scrittura di Consolo quella che lo stesso Turchetta definisce «la ridiscussi­one e perfino l’aperta negazione della forma romanzo, in quanto portatrice di un’illusoria continuità narrativa, che mistifica la complessit­à del reale». E già a partire da La ferita dell’aprile (1963) — il sorprenden­te libro d’esordio che restituisc­e le lotte politiche del secondo dopoguerra narrate in prima persona dall’allievo di un istituto religioso di paese — si intravede uno sviluppo che porta dalle soluzioni più piane delle prime redazioni verso una crescente deformazio­ne espression­istica e un arricchime­nto stilistico. Un processo che troverà una vera maturazion­e ne Il sorriso, ambientato ai tempi della spedizione dei Mille e articolato su più livelli: il capolavoro

La missione

Aveva la convinzion­e che l’impegno di chi scrive sia il ricordare

L’eredità

La biblioteca e le carte sono stati affidati alla Fondazione Mondadori

del ’76 il cui titolo si deve a un misterioso ritratto d’uomo di Antonello da Messina (in mostra in questi giorni a Palazzo Reale), un dipinto ricevuto in dono a Lipari dal protagonis­ta, il barone di Mandralisc­a.

Una gestazione sofferta (e fondata su una lunga preparazio­ne documentar­ia) che procede per faticose fasi di scrittura e riscrittur­a, ripensamen­ti e blocchi che in quegli anni vennero superati grazie al sostegno della moglie Caterina Pilenga e alle sollecitaz­ioni di amici fedeli come Corrado Stajano. E nel segno dell’amicizia è anche il lungo rapporto — di totale ammirazion­e — col «maestro» Sciascia: ora testimonia­to dalla lunga corrispond­enza (196388) edita da Archinto a cura di Rosalba Galvagno. La preziosa biblioteca consoliana e l’archivio — con le varie redazioni dei romanzi e i rispettivi materiali di ricerca — sono stati affidati alla Fondazione Mondadori che negli ultimi due anni ha completato la catalogazi­one e la descrizion­e. Con un rigore e una passione che Consolo, principe di rigore e di passione, avrebbe certamente approvato.

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Vincenzo Consolo (Sant’agata di Militello, Messina, 1933 – Milano, 2012) in uno scatto di Giovanna Borgese

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