Corriere della Sera

Il film punta su sentimenti e citazioni di grandi autori

- di Maurizio Porro

È l’arcobaleno che si aspetta durante C’è tempo, il settimo film (ma il primo di fiction) di Walter Veltroni, cinefilo che crede nei sentimenti e nel potere del cinema di trasmetter­li. Il genere è emozioni, che non sono quelle legate a un thriller, ma ai movimenti impercetti­bili delle nostre sensazioni quotidiane nel nostro rapporto con gli altri. E l’arcobaleno arriva doppio nel finale parigino.

Il film, un road movie un poco ricalcato sul Sorpasso ma con epicentro emiliano, ha la leggerezza di un sogno fatto in due o di una fiaba, il tocco di un rapporto in fieri che si può inventare giorno per giorno. Siamo in un paese poco realistico, spesso quasi deserto, partendo però da un molto reale diffuso bisogno di ottimismo, mortificat­i come siamo tutti dal sovrappeso di odio, livore, violenza che è moneta corrente nella società.

Il cinema aiuta? La storia è quella di un brav’uomo ufficialme­nte inutile e in soprappeso, in via di divorzio: un giorno apprende improvvisa­mente di avere un fratellino 13enne orfano e bisognoso di tutte le figure familiari, compreso un tutore, cioè lui che si sente inadatto al ruolo, incapace di insegnare. Ma l’ha deciso un giudice.

Dapprima attratto dalla ricompensa, col bieco proposito di mandarlo in collegio appena possibile, durante il corso di un tempo cinematogr­afico che sparge tenerezze di vario ordine e grado, sociali e sentimenta­li, l’uomo finisce per affezionar­si a quel ragazzino saputello trovato per caso che esce, come un piccolo

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Cantante Simona Molinari in una scena di «C’è tempo»

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