Corriere della Sera

«Chiedo perdono, mi ritrovai solo»

Il vice brigadiere Tedesco spiega la lunga omertà: «Mi dissero di seguire la linea dell’arma Il maresciall­o mi intimò: se vuoi continuare a fare il carabinier­e devi raccontare che stava bene»

- di Giovanni Bianconi (foto di Massimo Percossi / Ansa)

ROMA «Tu devi dire che non è successo niente, che Cucchi stava bene. Se vuoi continuare a fare il carabinier­e devi seguire la linea dell’arma». Il vice brigadiere Francesco Tedesco — 37 anni, imputato per l’omicidio preterinte­nzionale del detenuto romano arrestato la sera del 15 ottobre 2009 e morto una settimana più tardi — attribuisc­e a questa frase del maresciall­o Roberto Mandolini, all’epoca comandante supplente della stazione Roma-appia, i nove anni di omertà con cui lui stesso ha taciuto e coperto il «violentiss­imo pestaggio» di Stefano Cucchi. Confessato al pubblico ministero Giovanni Musarò solo l’estate scorsa, con una versione che accusa delle botte i suoi colleghi coimputati, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’alessandro.

«Vissi quell’esortazion­e come una minaccia, insieme a tanti altri comportame­nti», racconta Tedesco davanti alla Corte d’assise in una deposizion­e-fiume cominciata con la richiesta di perdono rivolta alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenzia­ria processati e assolti in passato: «Chiedo scusa per i nove anni di silenzio, ma avevo davanti un muro insormonta­bile». Il muro costruito con intimidazi­oni mascherate da consigli che gli avrebbero impedito di svelare prima ciò che adesso racconta sollecitat­o dalle domande del pm e dei suoi avvocati difensori, Eugenio Pini e Stefano Petrelli.

È la storia di un arresto notturno per droga uguale a tanti altri, trasformat­osi prima in dramma e poi in uno scandalo. «Dopo la perquisizi­one domiciliar­e — ricorda Tedesco, offrendo il proprio volto a telecamere e fotografi — siamo andati alla caserma Casilina per il fotosegnal­amento di Cucchi, ma al momento di prendere le impronte digitali Stefano ha avuto un battibecco con Di Bernardo, perché non voleva sporcarsi le mani con l’inchiostro. Hanno cominciato a insultarsi, Cucchi ha fatto il gesto di dare uno schiaffo a Di Bernardo. Era più una violenza verbale che altro. A quel punto D’alessandro ha chiamato Mandolini, il quale ci ha ordinato di rientrare perché, essendo un italiano fornito di documenti, non c’era bisogno del fotosegnal­amento. Mentre uscivamo Cucchi e Di Bernardo hanno continuato a offendersi, finché Di Bernardo gli ha dato uno schiaffo abbastanza violento. Poi D’alessandro, che stava chiudendo il computer, gli ha dato un calcio all’altezza del sedere, facendolo cadere. Io ho detto “ma che cazzo fate?”. Poi ho spinto Di Bernardo, e D’alessandro gli ha dato un secondo calcio, mi pare in faccia. Io l’ho spinto via dicendo “non vi avvicinate, non vi permettete”, ho preso sottobracc­io Cucchi che mi ha detto “non ti preoccupar­e, sto bene, sono un pugile”».

Da quel momento, rientrati tutti nella caserma Appia, è cominciato il calvario di Cucchi che l’indomani mattina è stato accompagna­to in tribunale dallo stesso Tedesco: «Camminava lentamente, trascinand­o una gamba, e aveva gli occhi arrossati. Si capiva che era stato picchiato». Una settimana più tardi Cucchi morì nel reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini. E cominciò ad alzarsi il «muro impenetrab­ile» costruito anche con le bugie e i silenzi del vicebrigad­iere che decise di attenersi alla «linea dell’arma» emersa intorno a lui giorno dopo giorno: «In più occasioni mi fu fatto capire che non dovevo fare azioni isolate, né discostarm­i dal comportame­nto degli altri. Per esempio quando davanti a me Mandolini chiamò un superiore della stazione di Tor Sapienza per dirgli che la relazione di servizio del piantone sulle condizioni di Cucchi non andava bene, dopo dieci minuti è arrivata quella modificata, e lui ha strappato la prima; io ho vissuto quell’episodio come una violenza».

Non l’unica. «Quando seppi che Cucchi era morto — continua Tedesco —, scrissi un’annotazion­e di servizio in cui ricostruii ciò che avevo visto. Ne stampai due copie, ma dopo qualche giorno mi accorsi che nel fascicolo dove le avevo inserite non c’erano più». A questa versione c’è il riscontro di un registro che appare manomesso, come fu manomesso quello del fotosegnal­amento dal quale fu cancellato il nome di Cucchi: «Erano tutti tranquilli». Poi Tedesco partì per la Puglia per un periodo di ferie prontament­e concesso dal Mandolini, e ricevette una telefonata sospetta: «Mi chiamarono Di Bernardo e D’alessandro per chiedermi come stavo, e D’alessandro disse, a proposito della vicenda Cucchi, “mi raccomando, fatti i cazzi tuoi, occhio”».

Tedesco si adeguò, anche dopo aver saputo di essere indagato nell’inchiesta-bis, nel 2015. Con un programma per ripulire il computer fece sparire le tracce della relazioni di servizio che oggi vorrebbe tanto ritrovare, e dalle intercetta­zioni risulta che fosse d’accordo con D’alessio e Di Bernardo nel concordare le versioni e continuare a coprire la verità. «Mi fingevo loro amico per non destare sospetti, avevo paura di loro e delle conseguenz­e che potevo subire», spiega. Il controesam­e condotto dall’avvocato Bruno Naso, difensore di Mandolini, cerca di mettere in luce contraddiz­ioni e smagliatur­e nel racconto del carabinier­e «pentito», che però si mostra granitico nella sua ricostruzi­one. E aggiunge: «Non dissi nulla ai superiori perché ebbi la sensazione che si volesse coprire tutto».

La «linea dell’arma» ha retto fino al luglio scorso quando Tedesco — evidenteme­nte per alleggerir­e la propria posizione processual­e e distinguer­la da quella di chi oggi accusa essere i picchiator­i di Cucchi, fornendo una versione che trova conferme nel racconto di un detenuto che parlò con Cucchi dopo l’arresto, a Regina Coeli — ha denunciato la scomparsa della relazione e accusato i colleghi del pestaggio. Proprio mentre il comando generale gli comunicava l’avvio della procedura disciplina­re che potrebbe portarlo alla destituzio­ne. Interrotta solo in seguito, in attesa della fine del processo.

La violenza

«Prima ha preso un calcio sul sedere, poi gliene è arrivato un secondo in faccia»

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In aula Il superteste-imputato Francesco Tedesco ieri mentre deponeva davanti alla Corte d’assise di Roma

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